Alla dignità del lavoro non si può rinunciare

Che primo maggio vive quest’anno l’Italia? Nonostante qualche segnale positivo, il lavoro continua a mancare. E la disoccupazione – ricordano i vescovi nel loro messaggio – spinge persone impaurite ad accettare che dignità, diritti, salute finiscano in secondo piano. È questo il rischio più grave che la lunga crisi economica ci consegna: l’idea che «la dignità non si mangia», e che dunque sia possibile farne a meno. Ma se scivoliamo nel disinteresse per gli altri, per chi rimane indietro, fatalmente perdiamo la nostra umanità.

Alla dignità del lavoro non si può rinunciare

I dati

All’inizio di aprile l’Istat ha pubblicato Noi Italia, selezione di 100 indicatori statistici che fotografano il nostro paese a inizio 2016.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, lo scorso anno si è chiuso con il tasso in disoccupazione in discesa di 0,8 punti rispetto al 2014, poco sotto il 12 per cento. Tra i giovani (15-24 anni) è al 40,3 per cento, mentre solo metà delle donne tra i 20 e i 64 anni ha un lavoro.
Gli occupati a tempo parziale sono il 18,5 per cento, mentre sale al 14 per cento l’incidenza dei lavori a termine. Poco meno di sei disoccupati su dieci cercano lavoro da oltre un anno.
In Europa soltanto Grecia, Croazia e Spagna presentano tassi di occupazione inferiori a quello italiano.
Quest’anno la piazza “nazionale” del primo maggio è quella di Genova, dove parlano i segretari confederali di Cgil (Susanna Camusso), Cisl (Anna Maria Furlan) e Uil (Carmelo Barbagallo). Tema scelto dai sindacati, “Più valore al lavoro”. Il primo maggio, come avvenuto anche il 25 aprile, sarà anche giorno di volantinaggi e scioperi contro le aperture festive degli esercizi commerciali, promossi nell’ambito della campagna “La festa non si vende”.
“Il lavoro, libertà e dignità dell’uomo in tempo di crisi economica e sociale” è invece il titolo del messaggio della commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace della chiesa italiana.

L'analisi

«Il dato prevalente è che il lavoro in Italia manca. Una scarsità che porta sempre più persone, impaurite dalla prospettiva di perderlo o di non trovarlo, a condividere l’idea che nulla sia più come è stato finora: dignità, diritti, salute finiscono così in secondo piano».
È una analisi lucida e preoccupata, quella che apre il messaggio dei vescovi italiani per questo primo maggio, giornata che ci ostiniamo a chiamare di “festa” anche se da tempo è difficile trovare ragioni autentiche per festeggiare.
Analisi lucida, perché mette subito in chiaro il dato di fondo, il tono complessivo del nostro paese, anche a sfatare certe letture troppo ottimistiche che arrivano dai palazzi del governo: il Jobs act è stato sicuramente un passaggio importante per dare una scossa al mercato del lavoro, ma i problemi strutturali sono tutti ancora lì di fronte a noi.
Analisi preoccupata, perché partendo da quella constatazione – «il lavoro in Italia manca» – mette in dito nella vera piaga, smascherando il rischio più grave che questa lunga crisi economica ci consegna: l’idea, in altre parole, che il lavoro sia un valore “a prescindere”.
E pazienza se è un lavoro sottopagato, se trasforma la persona in pedina, se inquina e fa ammalare. È la crisi, bellezza. Se non ti sta bene...

Pare un’equazione logica – «meglio poco che niente» – e invece è un inganno pericoloso.
Specie se a decidere il “poco” in questione sono le logiche di un’economia sempre più ostaggio della finanza e sempre meno capace di contemperare la logica del profitto con l’esigenza dell’equilibrio sociale.

Cedere al ricatto, in realtà, non mette per nulla al sicuro.
Certo, nella misura in cui dobbiamo prendere atto che la globalizzazione ha fatto a brandelli l’architettura teorica del Novecento, possiamo e dobbiamo ripensare anche al reale valore e alla sostenibilità di quelli che siamo abituati a chiamare “diritti”.
Se oggi l’Italia ci appare come un campo di battaglia tra giovani e anziani, tra garantiti e non garantiti, tra baby pensionati e precari che alla pensione forse non ci arriveranno mai, è anche perché non abbiamo finora avuto il coraggio di indicare con chiarezza cosa è autenticamente “diritto” (e dunque valido per tutti) e a cosa sarebbe invece opportuno rinunciare, nella misura in cui appare oggi un “privilegio” per pochi, figlio di una stagione ormai tramontata.

Ma, fatta pure questa operazione di verità, rinunciare ai diritti in nome del «meglio poco che niente» è operazione inutile, quando non dannosa.
Proprio la globalizzazione ci insegna che esiste sempre un “altrove” in cui il costo del denaro è minore, in cui la tutela ambientale, le pastoie della legge, i diritti dei lavoratori non sono lì a mettere i bastoni tra le ruote agli imprenditori.
La corsa al ribasso potrebbe non finire mai, ed essere comunque insufficiente. Ecco perché la strada della qualità, della specializzazione, dei prodotti figli della storia di un territorio, in buona sostanza la strada del sapere e del saper fare è l’unica che rimane aperta di fronte a noi.
Ed è una strada che, se percorsa davvero, porta imprenditori e lavoratori a incontrarsi nella ricerca di un lavoro migliore, più efficiente, persino più bello. Non di un lavoro al ribasso.

C’è però una seconda ragione, che i vescovi ben mettono in evidenza, per dire no a questa deriva del lavoro.
È la consapevolezza che l’uomo non è fatto a compartimenti stagni. Se si insinua in una dimensione così importante, come quella del lavoro, l’idea che «la dignità non si mangia»; se si trasforma l’azienda in un campo di battaglia e di sospetti perché è «sempre meglio a lui che a me»; se chi ha responsabilità manageriali finisce per pensare che «gli utili vengono prima delle persone»... alla fine è la nostra umanità, e non solo il mercato del lavoro, a uscirne profondamente trasformata. Perché così saremo e ragioneremo anche in famiglia, nella vita sociale, nell’impegno politico o al momento del voto.

«Ecco la responsabilità – ricordano i vescovi italiani – che tutti ci troviamo a condividere: l’incapacità di fermarci e tendere la mano a chi è rimasto indietro. Intimoriti e atterriti da un mondo che non offre certezze, scivoliamo nel disinteresse per il destino dei nostri fratelli e così facendo perdiamo la nostra umanità».
È un invito che bussa alla porta di ciascuno, quale che sia il suo impegno, perché non c’è nessuno che non abbia uno spazio, grande o piccolo, da riempire con la sua testimonianza positiva. Ma è un invito che bussa, in modo particolare, alla porta dei sindacati che questa domenica tornano in piazza.

Prima dei posti di lavoro, c’è da difendere la verità profonda del nostro essere uomini e donne, comunità solidale capace di prendersi a cuore il futuro.
Fuori da questa cornice, forse salveremo un posto di lavoro – povero, precario, impaurito – ma non salveremo né il gusto del lavorare, né la bellezza della vita.

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