Cent’anni fa la morte di Guido Negri, il "capitano santo" di Este

Sul Colombara si spegneva, il 27 giugno 1916, il giovane capitano estense che per tutta la sua breve vita aveva cercato di essere un laico cristiano in grado di “santificare il mondo” e consacrarlo, sotto la guida dello spirito evangelico, senza rinunciare agli ideali umani, politici e culturali, anzi inserendoli tutti in una profonda vita di grazia.

Cent’anni fa la morte di Guido Negri, il "capitano santo" di Este

«Primo tra i primi, col nome della patria sulle labbra, trascinava con esempio fulgido e magnifico la sua compagnia all’assalto di una fortissima postazione nemica. Colpito da piombo nemico al cuore, lasciava la giovane esistenza sotto i reticolati».
Forse a Guido Negri, il “capitano santo” di Este morto sul monte Colombara, questa motivazione apposta alla medaglia d’argento al valor militare non sarebbe piaciuta del tutto.
Ci teneva a essere d’esempio ai suoi soldati e per questo aveva voluto andare in prima fila all’assalto e non ultimo, come spettava agli ufficiali. Il suo essere d’esempio però non voleva limitarsi al coraggio nell’affrontare la morte: voleva esserlo anche nella fede tenace, nella preghiera costante, nella devozione al Sacro Cuore di Gesù, nell’assiduità all’eucaristia.
Per questo, sicuramente, gli sarebbe dispiaciuto d’essere ricordato morente con il nome della patria sulla labbra.

Non che la patria non fosse importante per lui, anzi.
Negri apparteneva a quello stuolo crescente di cattolici che si riconosceva in pieno in quest’Italia, che pur aveva ancora tanti rigurgiti anticlericali e con la sua anima massonica derideva o, peggio, emarginava i “papalini” dai ruoli significativi.
Solo che, al momento di morire, avrebbe certo preferito avere sulle labbra il nome di Gesù o della Vergine, a cui era tanto devoto.
In realtà, nella testimonianza di chi c’era in quegli attimi fatali, sul Colombara, il ventottenne capitano non ebbe nemmeno il tempo di socchiuderle le labbra, per sedare l’arsura di quel primo balzo fuori dalle trincee, mentre con il suo reparto tentava di riguadagnare alcune delle posizioni conquistate dagli austriaci sull’altopiano di Asiago.
Era giunto da tre mesi al comando della quinta compagnia, secondo battaglione, 228° reggimento della brigata Rovigo, dopo una lunga malattia e la convalescenza, usata per laurearsi in lettere.
«Il capitano Negri – ricorda il caporale Durat che partecipò all’operazione – era giunto al punto donde scattare l’assalto; chiese a più d’uno che gli era vicino un po’ d’acqua, e nessuno ne aveva. In quel momento una pallottola lo colpì alla fronte e cadde senza pronunciare parola; la morte fu istantanea».

Così si concluse l’esistenza di un giovane uomo che per tutta la sua breve vita si era proposto, strenuamente, di essere un buon cristiano e un buon italiano, in un tempo in cui era davvero difficile assumere entrambe le vesti.
Un giovane animato da «amor di patria e fede in Dio intimamente uniti – scrive il giornalista Angelo Augello all’inizio della sua biografia inedita, commissionatagli da Angelo Ferro, defunto presidente dell’Oic, che al capitano estense aveva voluto intitolare la casa di Thiene – anzi inseparabili, volti a forgiare l’animo dei giovani rendendoli disponibili a indossare una divisa militare».
Un giovane nato il 25 agosto 1888 a Este, ultimo di 12 figli del farmacista di piazza Maggiore, morto quando Guido aveva appena quattro anni, aderente fin da subito al circolo cattolico San Prosdocimo, di cui diventa segretario, penitente di padre Leopoldo, terziario domenicano, presidente del primo circolo padovano di universitari cattolici.
Augello, nel tentativo di sintetizzare la sua complessa e tormentata personalità, con l’aiuto di mons. Pietro Brazzale, postulatore per la diocesi di Padova di una causa di beatificazione dal cammino sofferto, scrive: «Guido è la figura tipica del giovane laico che sa inserirsi nella vita quotidiana e nell’ambiente in cui la Provvidenza lo pone, portando la propria ricchezza interiore e “santificando” le circostanze della vita, proponendosi quella “trasformazione del mondo dall’interno” che è appunto il compito specifico del laico. Senza rinunciare ad alcuno dei veri ideali umani, li inserisce tutti in una profonda vita di grazia». È quel “restaurare ogni cosa in Cristo” che era il motto del papa veneto, Pio X.
Un’operazione non priva di tensioni e contrasti, come quello che lo oppose per ragioni politiche al vescovo di Padova, Luigi Pellizzo, il quale nel 1914 scioglierà tutte le associazioni cattoliche estensi, ma poi si riconcilierà con Guido al punto da esortare il suo primo biografo, don Giuseppe Ghibaudo, a dirne tutto il bene che si può dire, che non sarebbe mai stato troppo. Come la frattura con il padre di Santina Cortellazzo, la giovane donna con cui Guido intrattenne una relazione sentimentale “piuttosto spirituale”, che era in attesa di definire alla fine della guerra.
E poi c’è il servizio in armi, come allievo ufficiale di fanteria, servizio scelto probabilmente per non gravare sulla numerosa famiglia con gli studi universitari, ma che non appariva affatto in contrasto con i suoi ideali di difesa della patria.
Nel 1909 la nomina a sottotenente; nel 1911 un breve richiamo alle armi; quindi il terzo richiamo, allo scoppio della guerra, che inizierà sul fronte dolomitico. La malattia, la laurea, il ritorno al fronte, la morte: era il 27 giugno del 1916, cent’anni fa.

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