Don Andrea Peruffo: «Servono preti con grandi competenze sociali»

Il nuovo numero di APPunti, il mensile di approfondimento a cura della Difesa del popolo e della Voce dei Berici, è dedicato alla formazione di base e permanente dei preti. L'intervista a don Andrea Peruffo, consulente psicodiagnostica del seminario di Vicenza, delinea chi sono e cosa chiedono oggi i preti giovani al seminario.

Don Andrea Peruffo: «Servono preti con grandi competenze sociali»

«Bisogna domandarci che tipo di persone sono attratte dal ministero sacerdotale. Un tempo si cercavano uomini capaci di reggere la solitudine. Oggi abbiamo bisogno di preti che coltivano le competenze sociali».
Don Andrea Peruffo, vicentino, classe 1968, è dentro da anni al tema della formazione dei preti. Laureato in psicologia alla Pontificia università Gregoriana, dal 2003 è consulente psico-diagnostico del seminario di Vicenza. Nel 2013 ha assunto l’incarico della formazione dei preti del “sessennio”, ovvero nei primi sei anni di ordinazione.

Peruffo, che per diversi anni è stato responsabile della pastorale vocazionale diocesana, è direttore dell’Istituto superiore per formatori, creato nel 1977 dalla Gregoriana con sede a Brescia, che il prossimo 22 luglio celebrerà i 40 anni di attività con il convegno “Accompagnare, discernere, integrare”.

Cosa hanno in comune i giovani preti di oggi con quelli più anziani e in cosa, invece, si differenziano?
«La cosa che accomuna i preti di tutte le generazioni è la voglia di mettersi in gioco con le persone, di darsi da fare nella pastorale, l’entusiasmo a vivere il loro ministero. La grande differenza nasce dal cambiamento in atto: i preti giovani sono preoccupati perché si vedono di fronte un carico di lavoro sempre maggiore».

Da dove nasce questa preoccupazione?
«Visto il calo del numero dei preti, le parrocchie si stanno organizzando in unità pastorali sempre più grandi, quindi in un carico di lavoro crescente. Questo preoccupa i preti giovani, che vedono, in questo cambiamento, concretizzarsi possibilità che li preoccupano».

Cosa comporta tutto questo dal punto di vista formativo?
«Che ci deve essere una relazione molto stretta tra la formazione che si fa in seminario e quella permanente, che accompagna il prete per tutta la durata del suo servizio. In seminario occorre imparare a formarsi a partire da quello che accadrà nella vita. La vita deve essere vissuta in una prospettiva “formativa”, ovvero in cui ci si lascia cambiare, trasformare dalla vita stessa. Potremmo parlare di “conversione continua”, non solo di aggiornamento delle informazioni».

Guardando le biografie dei preti giovani, in molti casi emerge la “crisi esistenziale” come momento decisivo per l’entrata in seminario. Non c’è il rischio che il clero peschi nel “disagio giovanile”?
«Questo rischio, in parte, c’è. Certamente, però, una delle questioni su cui interrogarsi è che tipo di persone sono attratte, oggi, dal ministero. Il problema si pone in maniera diversa che in passato».

Quali caratteristiche deve avere oggi, un prete, per affrontare questa realtà in continuo mutamento?
«Un tempo si cercavano uomini capaci di reggere la solitudine. Oggi, invece, abbiamo bisogno del contrario, cioè di persone capaci di sviluppare competenze sociali per processi collaborativi come chiedere aiuto, gestire i conflitti, valorizzare i singoli, lavorare in gruppo...».

Oggi il seminario prepara queste competenze?
«Così com’è, no. Possiamo anche tenere il seminario, ma bisogna cambiare la formazione al ministero».

I preti giovani sono consapevoli di queste esigenze?
«Son loro i primi a chiedere percorsi che li accompagnino a prendersi cura della propria vita».

Come vivono, i preti giovani, il rapporto con quelli più anziani?
«Se da un lato viene valorizzata la novità portata dai più giovani e dall’altro si valorizza l’esperienza degli anziani, allora le cose funzionano. Altrimenti, sono due mondi incomunicabili».

Oggi entrano in seminario persone già adulte e con percorsi molto diversi: questo complica le cose?
«Certamente le complica, ma è anche la sfida che dobbiamo affrontare: non aver paura dei cambiamenti ma farli diventare processi formativi».

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