La giusta cura dal tumore? Bisogna guardare al malato, non solo alla malattia

Non basta la cura della malattia. Serve considerare il paziente come persona, mettersi a fianco di un uomo, una donna, oppure un bambino, che hanno una vita di relazione, familiare, sociale e che dovranno affrontare un periodo duro, tra terapie e ospedalizzazione.
Adriano Fornasiero, primario dell'Ulss 16, da 41 anni lavora come oncologo. In questa intervista guarda alla sua esperienza e alle nuove frontiere della cura.

La giusta cura dal tumore? Bisogna guardare al malato, non solo alla malattia

Adriano Fornasiero, una vita professionale trascorsa a curare pazienti con il cancro, oggi dirige il reparto di oncologia dell'Ulss 16.
All'ospedale di Piove di Sacco, con attività anche al Sant'Antonio di Padova, è primario dal 2001. Laurea in medicina al Policlinico di Milano con una tesi sull'antigene carcino-embrionario Cea, il primo marcatore per tumori gastrointestinali, una volta arrivato a Padova inizia a frequentare da volontario il reparto del professor Mario Fiorentino, uno dei padri dell'oncologia medica in Italia, e da lì prosegue prima a Padova nell'Azienda ospedaliera e poi a Piove di Sacco.

«Arrivi da Milano con una tesi sperimentale – racconta – e sogni la ricerca, magari negli Stati Uniti. Con il tempo, per la mia formazione e grazie all'incontro con l'associazione Volontà di vivere, ho capito che il paziente oncologico non è la malattia, è una persona che ha quel tipo di malattia ma vive in un contesto familiare, sociale, ha il suo lavoro. Persone con una diagnosi tremenda che dovranno superare le conseguenze della terapia, l'ospedalizzazione. Mi sono fermato e mi sono detto: “Le cure devono tenere conto del paziente, guardandolo come una persona che deve lottare contro tutte queste difficoltà”. Sono passati 41 anni e continuo a operare così».

Il cancro è una malattia che fa molta paura. A che punto siamo con la cura?
«Torno da Copenaghen dal congresso degli oncologi europei, e devo dire che sono molto interessanti le sperimentazioni con i farmaci biologici, proiettili che cercano le cellule tumorali, il futuro della terapia associati alla chemio. Usando questi farmaci io avrei una possibilità in più per guarire o controllare la malattia. Il problema resta uno: potremo usarli in futuro? L'ostacolo è il costo. Un esempio: per il tumore alla mammella in presenza dell'oncogene HER2-NEU alla chemio si abbina un farmaco biologico che si chiama Herceptin che riduce il rischio di recividiva del 12-14 per cento. Un'unica somministrazione costa 1.500/2.000 euro. Nella terapia “adiuvante” servono 18 somministrazioni. Tutti gli antiblastici di nuova generazione sono estremamente costosi. Noi oncologi medici, secondo i direttori, siamo quelli che in ospedale spendono di più. Ogni volta la domanda è: “Usare o no questi farmaci?”. Una domanda che dobbiamo porci dal punto di vista deontologico e umano. Un oncologo di esperienza risponde pensando ai vantaggi che ogni singolo paziente avrà dal trattamento. Sono molti i casi in cui si può guarire, e l'esito è legato allo stadio della malattia al momento della diagnosi. L’uso di questi farmaci può essere importante quando si è già intervenuti chirurgicamente e la malattia non si è diffusa. In caso di metastasi, invece, possono garantire alcuni mesi in più di vita ma a prezzo di forti dolori. In questi casi preferisco guardare alla qualità della vita ed è quello che dico anche ai familiari che mi contattano per un secondo parere».

Il cancro resta una malattia che fa più paura delle altre.
«Il cancro è sempre il cancro. Una malattia grave e che dà morte con dolore. Quando questa patologia arriva al fegato è incurabile, lo stesso per le metastasi ossee. Ci sono però esempi belli di malattie che guariscono in modo definitivo, come i linfomi o i tumori del testicolo negli uomini giovani. Ci sono tumori che fanno molta paura come quello del pancreas. Anche le leucemie acute fanno paura ma oggi abbiamo a disposizione farmaci che le possono curare. Dopo la diagnosi la preoccupazione è quella della terapia e io ai pazienti dico: “Lei deve pensare che non subisce la cura, la chemioterapia è il mezzo per arrivare alla guarigione”. Spiego anche che la chemio tradizionale è “stupida” perché colpisce cellule sane e malate che hanno la stessa velocità di crescita, ma le cellule sane sono più intelligenti, recuperano prima e così aiutano la guarigione».

Credere nella guarigione è fondamentale?
«Resta fondamentale, perché aiuta i meccanismi che attivano le difese immunitarie. Anche le ricadute non sempre portano a morte sicura: la terapia deve continuare. E poi ci sono i controlli. I pazienti si dividono in due grandi gruppi. Quelli che i controlli non li fanno più e sono la minoranza e quelli che dopo vent'anni mi dicono: “Ma mi vuole mollare?”».

È aumentata l'incidenza della malattia negli ultimi anni?
«Secondo i dati emersi al congresso di Copenaghen, il tumore alla mammella dopo qualche decennio di crescita si è stabilizzato. Certi tumori sono aumentati, come il carcinoma al pancreas o quello alla prostata, e poi compaiono tumori rari come i sarcomi dei tessuti molli. Sono in aumento i tumori dell'anziano. L'aspettativa di vita ha fatto sì che si stia sviluppando un'oncologia geriatrica. Credo che il 30-40 per cento dei miei nuovi pazienti abbia più di 65-70 anni, pazienti con presenza di più patologie e con reni e fegato, gli organi attraverso cui si elimina la terapia, alterati dall'usura. Pazienti più fragili anche dal punto di vista psicologico».

Il caso di Eleonora, la giovane padovana morta a fine estate di leucemia a 18 anni, ha riproposto il tema delle terapie alternative. Cosa ne pensa?
«Non conosco il caso e penso sia un dramma per una famiglia. Io rispetto il dolore. Negli ultimi anni in cui lavoravo a Padova, ero facente funzioni del primario e ho dovuto controllare la sperimentazione sulla cura Di Bella. Mi hanno chiamato una sera tardi dall'ospedale perché un uomo chiedeva urlando la cura per la moglie. Il mio primo passo con lui è stato confrontarmi, capire la richiesta, la disperazione. Anche adesso, quando un paziente mi dice che assume l'aloe, un antinfiammatorio riconosciuto, cerco di capire cosa si aspetta dalla cura alternativa. Io credo che la medicina debba evitare di erigere dei muri, di mezzo c'è il paziente e la storia delle terapie alternative è lunga. Io di persone che hanno scelto altre terapie ne ho avute pochissime: ho sempre cercato però di confrontarmi, di mettermi al loro livello».

Si fa un augurio come medico per il futuro della cura di questa malattia?
«L'augurio è che molte persone possano sentirsi guarite e che la sanità abbia un occhio di riguardo per il lavoro dell'oncologo. Mi auguro poi che il paziente oncologico arrivi meno ansioso, disorientato, turbato e che ci sia meno burocrazia. I miei collaboratori li bacchetto sempre perché perdono più tempo a scrivere al computer le terapie che a parlare con il paziente. Ma spesso, per come è organizzato oggi il lavoro, non abbiamo scelta».

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