Nasce la Fondazione Nervo-Pasini: sarà il "Cantiere" della chiesa di Padova

«A un anno di distanza dall’annuncio del vescovo Claudio, possiamo dire che iniziamo a vedere concretizzarsi il suo auspicio. La Fondazione che gestirà le cucine popolari è il nostro cantiere. Un segno forte, che coniuga storia e sguardo al futuro, esperienza e voglia di innovazione, carità concreta e impegno culturale. Una realtà di chiesa, ma aperta al contributo di chi vorrà esserci a fianco. Intanto noi partiamo».
Il vicario episcopale don Marco Cagol spiega in questa intervista senso, percorso, obiettivi della nuova fondazione.

Nasce la Fondazione Nervo-Pasini: sarà il "Cantiere" della chiesa di Padova

«A un anno di distanza dall’annuncio del vescovo Claudio, possiamo dire che iniziamo a vedere concretizzarsi il suo auspicio. La Fondazione che gestirà le cucine popolari è il nostro cantiere. Un segno forte, che coniuga storia e sguardo al futuro, esperienza e voglia di innovazione, carità concreta e impegno culturale. Una realtà di chiesa, ma aperta al contributo di chi vorrà esserci a fianco. Intanto noi partiamo».

Il vicario episcopale don Marco Cagol, all’indomani della solennità del Corpus domini, guarda a uno dei due segni che la chiesa di Padova ha voluto consapevolmente giustapporre: l’adorazione eucaristica a Santa Lucia (il “pane dello spirito”) e la Fondazione canonica dedicata a mons. Nervo e mons. Pasini che gestirà le cucine popolari (il “pane del corpo”). E spiega in questa intervista il senso e la genesi di un passaggio solo all’apparenza formale o dettato da necessità burocratiche.

«Certamente le cucine popolari sono una realtà complessa, che necessitava di una struttura gestionale più articolata e più aderente ai tempi. Ma nel lavoro che ci ha portato a questa scelta ci siamo imbattuti in una indicazione scritta del vescovo Bortignon che già 35 anni fa chiedeva di provvedere alla costituzione di un soggetto apposito per la gestione delle cucine, segno che il tema è all’ordine del giorno da lungo tempo e risponde a un’esigenza sentita».

Perché optare, tra i vari istituti giuridici disponibili, per una fondazione?
«Il vescovo aveva un desiderio molto preciso: che una realtà così preziosa per la nostra chiesa – che ha saputo coinvolgere un gran numero di volontari e che si avvale della collaborazione preziosa delle suore elisabettine – vedesse il coinvolgimento di altri soggetti ecclesiali.

Che non fossero insomma le cucine del vescovo o quelle di suor Lia, ma le cucine della chiesa di Padova.

Partendo da questa intuizione abbiamo optato per la formula della Fondazione di partecipazione: garantisce la titolarità della diocesi, ma al tempo stesso consente ad altri soggetti di partecipare attivamente alla gestione. In questo modo “fotografiamo” anche statutariamente, attraverso un soggetto giuridico dotato di una propria fisionomia, quel che è già un dato di fatto. Anche in passato le cucine non sono mai state un’isola separata nella città: si pensi solo alle 40 parrocchie che organizzato i pranzi domenicali o al sostegno dell’associazione universale di sant’Antonio attraverso il Pane dei poveri».

La fondazione sarà aperta alle realtà ecclesiali del territorio. E la società civile, il mondo imprenditoriale, le amministrazioni pubbliche?
«Potranno essere partecipanti fondatori o sostenitori le parrocchie di Padova e comuni limitrofi, altri enti ecclesiastici e associazioni ecclesiali di fedeli, altri enti e soggetti di ispirazione cristiana. Questo non significa che il tema del contrasto alla povertà possa e debba essere limitato solo al mondo ecclesiale, anzi. Lo statuto prevede esplicitamente che la Fondazione potrà promuovere convenzioni con enti pubblici, soggetti del volontariato, della cooperazione, dell’imprenditoria. Tutti possono e – spero – devono sentirsi interpellati».

Il candidato sindaco di Padova Massimo Bitonci ha ringraziato il vescovo e promesso il suo appoggio…
«Siamo in campagna elettorale. Ogni disponibilità dichiarata andrà poi misurata nel concreto agire di chi avrà la piena responsabilità dell’amministrazione comunale. Certo ogni disponibilità fattiva sarà bene accetta. Anzi, dico di più:

io credo che sia nell’interesse della città che attorno alla questione della povertà si costituiscano delle alleanze, delle vere sinergie, facendo tesoro anche del tanto lavoro fin qui fatto assieme. È un appello anche al mondo economico, che potrebbe arricchirci portando logiche di efficienza, capacità gestionale, e al tempo stesso potrebbe anche farsi contaminare dalla nostra esperienza. Come dire: sul tema della povertà, ci stiamo tutti?

E ci stiamo insieme, senza inutili sovrapposizioni? Ci stiamo, mettendo ciascuno del suo?».

Certo il comune in questo percorso di contrasto alla povertà può svolgere un ruolo prezioso, di snodo e di coordinamento delle tante energie di una città.
«Non c’è dubbio. L’amministrazione comunale è sempre chiamata a coordinare gli sforzi di tutti coloro che si adoperano per promuovere percorsi di uscita dalla povertà. D’altro canto è anche importante evitare di “istituzionalizzare” tutto. Le opere di carità della chiesa hanno sempre un qualcosa di eccedente, legato all’amore delle persone, che non si può contabilizzare ed è difficile da imbrigliare troppo strettamente. La carità eccede, travalica ogni regola e ogni organizzazione, ti fa alzare di notte se un povero bussa alla tua porta perché in lui riconosci il volto di Gesù, come ci racconta suor Lia. Le strutture servono, ma la carità va oltre. Ed è questa la sua straordinaria bellezza».

Una cosa è certa: Padova è sempre più povera. E la povertà è sempre più complicata e frastagliata…
«Padova in questi anni si è impoverita, al pari del Veneto e di tutte le altre città. E come più volte abbiamo detto non esiste la “povertà” in termini astratti ma esistono i poveri, che sono persone in carne e ossa, con storie e percorsi l’uno diverso dall’altro. Per capire quanto complesso sia il tema, basta d’altronde andare a visitare le cucine:

il senza dimora, il tossicodipendente, lo straniero che magari ha perso il lavoro, la badante che ha pochi soldi e viene a mangiare nel giorno libero, l’anziano che le frequenta perché magari così vede gente invece di essere solo in casa, il padre separato, il visitatore abituale e quello di passaggio. Sono situazioni diverse, e innovare la nostra capacità di risposta potrebbe significare definire percorsi diversi, anche in contesti diversi, con obiettivi diversi. Questo però fatto salvo il servizio umanitario: perché dare da mangiare è il primo atto di carità, che non si nega a nessuno. Poi, su quello, si può provare a costruire altro».

Intitolare la Fondazione a mons. Nervo e mons. Pasini è già una spia della direzione in cui andare nel “costruire altro”...
«Sono stati due grandi maestri della nostra chiesa. Riferirci a loro significa ricordare sempre che la carità non si ferma a distribuire un pasto caldo. Il suo obiettivo deve essere quello di “contaminare” la società, di stimolare le istituzioni perché aggrediscano le cause della povertà, perché questo impegno sia vissuto come una responsabilità comune. Il lavoro dei “Cantieri di carità e giustizia” si è avvalso in questo anno delle competenze della Fondazione Zancan nel definire alcune linee guida. La mia speranza per i prossimi mesi è che la nuova Fondazione voglia farsi capofila di un ulteriore sforzo, coinvolgendo tutte le realtà che hanno accompagnato fin qui il lavoro di analisi per vedere se è possibile fare ulteriori passi. Proprio nella direzione che don Giovanni e don Giuseppe hanno saputo indicarci».

Continueremo a vedere le suore elisabettine alle cucine popolari?
«Senza ombra di dubbio. La madre provinciale ha già assicurato che rimangono una delle loro priorità, così come non è in discussione la presenza di suor Lia, che è pienamente partecipe di questo importante momento di trasformazione».

Continueremo a vedere le cucine popolari dove sono oggi?
«Senza ombra di dubbio».

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