Rifugiato a casa mia: il progetto si chiude con 11 accoglienze

Si concluderà il prossimo 30 giugno il progetto di Caritas italiana "Rifugiato a casa mia", che a Padova ha accolto 11 persone, due singoli e tre famiglie. Tempo di bilanci, tra prospettive di un lavoro che si conclude e analisi del tanto lavoro che resta da fare.

Rifugiato a casa mia: il progetto si chiude con 11 accoglienze

Undici persone.
Adulti e minori. Storie diverse, percorsi diversi, ma tutti donne e uomini e non più cifre o titoli sui giornali.
Sono questi i numeri del progetto “Rifugiato a casa mia”, promosso da Caritas nazionale, nella diocesi di Padova.

A poco più di un mese dalla sua conclusione – la data finale del progetto è quella del prossimo 30 giugno – è già tempo di fare un primo bilancio, per raccogliere i frutti di quest’esperienza e capire, anche dalle difficoltà e dalle incertezze, come approcciarsi nello spalancare le porte delle proprie case o delle proprie comunità a chi cerca ragioni per continuare a sperare nel nostro “primo mondo”.

«Per prima cosa – dichiara Silvia Bertolo della Caritas diocesana di Padova – si è trattato di accoglienze totalmente gratuite. Sono stati dati dei supporti economici per le varie attività, ma chi ha accolto non ha avuto alcuna entrata supplementare».

Due ragazzi, entrambi tra i 18 e i 20 anni, sono stati accolti in famiglia.
Il primo, dal Mali, ha trovato casa a Santa Giustina in Colle; l’altro, dal Gambia, è stato ospitato a Campodarsego.
Uno di loro è rimasto solo cinque mesi, poi, è entrato in un progetto Sprar per svolgere un tirocinio in un’azienda.

Gli altri nove ospiti, tre nuclei familiari, hanno trovato casa in due appartamenti, uno a Monselice e uno a Pernumia.
Se nel secondo ha abitato una famiglia di nigeriani, nel primo c’è stata una mamma etiope con il figlio e una famiglia di venezuelani: «Avevano già compreso la situazione del loro paese, nella difficoltà di trovare cibo e sicurezza, e così hanno deciso di venire in Italia. I fatti degli ultimi mesi danno loro ragione».

Certo, ciascuno dei rifugiati ha avuto un’esperienza diversa, ma il bilancio, per Silvia Bertolo, è positivo

«Hanno tutti avuto l’opportunità di inserirsi in un contesto territoriale, di creare relazioni, di capire come vanno le cose in Italia, ma soprattutto, hanno potuto avere degli strumenti per poter continuare una vita autonoma qui, nel territorio in cui sono stati ospitati. Non era più numeri, ma persone con un volto e con un nome, e questo ha facilitato la nascita di una rete di supporto».

Anche se il progetto termina ufficialmente il 30 giugno, per alcuni di loro l’allontanamento sarà graduale
«È un segno importante di fiducia e di speranza, al di là della retorica. Anche se sono emerse alcune difficoltà e tutte le differenze, questo non ci ha impedito di lavorare insieme. E questo è un segno forte che rimane nel tempo. Le famiglie che hanno accolto hanno poi coinvolto amici: il cerchio si è allargato, le relazioni si sono moltiplicate».

Se i rifugiati per questo progetto erano undici, sono migliaia quelli accolti in emergenza nei campi del Veneto.
Ma comunque, questa è la strada:

«Il modello delle piccole accoglienze è l’unico che ci permette di pensare ad un’integrazione futura. Il rapporto diretto è l’unico che ci permette di superare paure e diffidenze. Questo ci resta come un insegnamento e un incoraggiamento ad andare avanti».

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