Prodi: l’Europa deve cambiare. Le “due velocità” per rilanciare l’Ue, perché nessun Paese può farne a meno

L'integrazione comunitaria ha inaugurato - spiega il Professore - una "nuova epoca di crescita, di progresso e di pace". Ma questa Unione, più che mai necessaria, è a un tornante decisivo, minacciata dai nazionalismi e in difficoltà di fronte a disoccupazione, migrazioni, terrorismo. Prodi afferma: "Demolire l’Europa per sostituirla con cosa? Perché sia chiaro che nessuna nazione può farcela da sola". L'analisi tocca le radici della paura che pervade le opinioni pubbliche generando chiusure e antieuropeismo. "Brexit è il risultato della distanza dell’Europa dai cittadini". Serve una "nuova politica" per la "casa comune" del futuro

Prodi: l’Europa deve cambiare. Le “due velocità” per rilanciare l’Ue, perché nessun Paese può farne a meno

L’Unione europea ha recentemente ricordato i 60 anni dei Trattati istitutivi. Nella “Dichiarazione di Roma” – firmata dai leader europei in occasione delle celebrazioni del 25 marzo scorso – si sottolineano, giustamente, i successi ottenuti con il processo di integrazione e poi si torna sul principio fondante, la solidarietà, termine oggi “fuori moda” nel discorso politico. È ancora tempo di solidarietà tra i popoli e gli Stati del Vecchio continente? Come attualizzare tale valore ispiratore? «Certo che è ancora il tempo della solidarietà», spiega Romano Prodi, economista, ministro, due volte presidente del Consiglio, quindi presidente della Commissione Ue che ha concretizzato la moneta unica e realizzato l’allargamento dell’Unione verso est. «Furono i padri dell’Europa, a cominciare da Robert Schuman, che posero la solidarietà – aggiunge – come fondamento dell’Unione. Li guidava la memoria di ciò che la guerra aveva provocato e la volontà di impedire che ciò che era accaduto con la seconda guerra mondiale potesse accadere di nuovo».

Fra storia e attualità. La situazione oggi?
«Oggi diamo per scontata la pace entro i nostri confini, nonostante il mondo attorno a noi sia travolto da una “terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ha efficacemente definita Papa Francesco. È un errore nel quale più facilmente cadono le nuove generazioni, nate molto dopo il conflitto mondiale, che sembrano non avvertire il ruolo dell’Europa unita nella conquista di una pace che dura da oltre settant’anni. Si è perso quello spirito con cui i padri fondatori si impegnarono per il superamento di tutte le difficoltà fino ai Trattati di Roma con i quali si diede avvio, per i Paesi europei, a una nuova epoca di crescita, di progresso e di pace. Le tappe più importanti che hanno scandito la storia dell’Unione sono state conquistate con questa consapevolezza e con un profondo senso di responsabilità nei confronti di chi sarebbe venuto dopo. Pensiamo solo al passaggio alla moneta unica. La scelta di Kohl, che volle così tenacemente l’euro, non fu una scelta facile perché lo costrinse ad affrontare la forte contrarietà di parte dell’opinione pubblica tedesca. Quando gli chiesi perché fosse disposto a un rischio politico così alto pur di ottenere l’euro mi rispose: “perché mio fratello è morto in guerra”. Non mi parlò di banche e di banchieri! Voleva consolidare e far proseguire il processo di unione. Solidarietà e unità, questi sono i nostri valori».

Valori riconosciuti e promossi anche oggi dai leader politici dei Paesi aderenti?
«Oggi la classe dirigente sembra interessata al solo vantaggio immediato. Sono consapevole che certe scelte politiche possono risultare impopolari e difficili da far comprendere entro i confini del proprio Paese, ma chi ha la responsabilità della guida dell’Europa deve ricordarsi di tutti i suoi compagni di viaggio. La Germania oggi ha la leadership dell’Europa, è una nazione forte certo per le sue grandi capacità, e nessuno lo mette in discussione, ma non può guidare l’Unione rispettando la sola regola dell’austerità. Pensiamo al caso della Grecia e, pur tenendo conto che Grecia e Germania non sono facilmente paragonabili, ricordiamoci che nel 1953 fu per un atto di solidarietà e di saggezza collettive che si decise di tagliare il debito della Germania che non sarebbe mai stata in grado di saldare. Tagliandolo abbiamo dato respiro al Paese e abbiamo reso possibile il grande sviluppo che la Germania avrebbe avuto in seguito. Lo spirito di solidarietà di allora è stato il grande assente nella trattativa con la Grecia che non sarà mai in grado di far fronte alla totalità del suo debito. Ma se l’Europa dimentica i suoi principi fondamentali e taglia le sue radici non può che diventare sempre più fragile, non più forte».

Spesso si afferma che uno dei grandi “mali” dell’Unione europea risieda nei nazionalismi risorgenti. Da dove essi traggono origine? Come invece convincere le opinioni pubbliche a credere nell’Europa?
«Siamo di fronte a un crescente e pericoloso fenomeno antieuropeo e antisistema che cerca di far leva sul naturale senso di appartenenza al proprio Paese, comune a tutti i popoli e di per sé sentimento genuino e giusto. Si mira a indebolire ciò che in oltre settant’anni è stato costruito con pazienza e grande lungimiranza politica. C’è un problema però. Demolire l’Europa per sostituirla con cosa? Perché sia chiaro che nessuna nazione, neppure la forte Germania, o la Francia, o la Spagna e l’Italia potrebbero farcela da sole contro grandi potenze come Stati Uniti e Cina. Ho detto più volte che questa Europa è un pane cotto a metà. È un’Europa che non convince e non risolve, che non offre risposte politiche ai nostri problemi: disoccupazione, perdita di potere economico della classe media, immigrazioni. Ma non è demolendola che avremo risolto i nostri guai, anzi sarebbe un totale disastro. La proposta dell’Europa a due velocità che io stesso avevo predicato da tempo, è per il momento la sola risposta possibile in mancanza di una condivisa politica europea. Non è l’Europa che avevo sognato, ma ci può aiutare a uscire dalla tempesta. A condizione che la porta resti aperta a quei Paesi che, anche se successivamente, vogliano unirsi al limitato numero di quelli che avanzeranno per primi progetti per una maggiore integrazione a livello europeo, nel rispetto delle regole e degli obiettivi comuni. E occorre agire e in fretta se si vogliono dare risposte e risolvere i problemi. Perché solo così si contrastano i nazionalismi: ci vogliono risposte e decisioni. Occorre una nuova politica per una nuova Europa più unita e quindi più forte».

Brexit: una ferita per l’Europa comunitaria, ma forse anche l’occasione per un buon esame di coscienza, orientato a ridare slancio all’Unione?
«La Brexit è certamente il sintomo più evidente della crisi. È il risultato della stanchezza, della distanza dell’Europa dai cittadini, di un’Europa che non conta più e non decide. Questa Europa è divisa da interessi che sembrano non poter più convergere e che producono la frammentazione del quadro di insieme in tanti diversi nazionalismi. Dinanzi alla povertà crescente, alla disoccupazione, alle migrazioni di massa e alla difficoltà dell’integrazione sono stati i ceti più deboli delle periferie inglesi, i più fragili a scegliere la Brexit. Una grande sconfitta che ho sperato potesse dare la sveglia all’Europa, ma la lentezza con cui si sta reagendo mi ha disilluso. Ancora una volta sembrano prevalere gli interessi di pochi su quelli di tutti. Ho ancora speranza che Macron, protagonista vincente dopo una campagna elettorale apertamente europeista, riconquisti alla Francia la leadership politica europea che riporterebbe un certo equilibrio in Europa ridimensionando il ruolo tedesco. Per farlo però ha bisogno anche dell’Italia e l’avvio del nuovo presidente francese, in questo senso, non è stato molto incoraggiante, anzi assai scoraggiante. Speriamo meglio per il futuro».

Questione migratoria: l’Italia – con la Grecia – subisce la maggior pressione e invoca aiuto dalle altre nazioni europee: è possibile che tale appello si tramuti in un vero sostegno? Diversamente, come agire verso quei Paesi che sbarrano la porta a chi fugge da guerre e fame?
«Cominciamo col dire che chi fugge dalla guerra, dalle minacce del terrorismo, dalla fame e dalle malattie non rinuncerà alla prospettiva di spostarsi in cerca di una vita migliore rispetto alle sue condizioni. Condizioni di così estrema fragilità e povertà che tutto, anche i rischi peggiori, appaiono affrontabili. Allo stesso tempo è proprio la migrazione di massa che sta cambiando la politica dell’Europa. È la migrazione infatti che genera la paura più grande e la paura, ingigantita dagli interessi elettorali alimenta egoismi e irrazionalità. Dinanzi alla paura la politica sembra abdicare al suo ruolo e preferisce scorciatoie populiste e massimaliste. È ancora la paura responsabile di una condizione spesso di natura psicologica, che non sempre trova una vera corrispondenza nella realtà, alimentata da una crescente campagna mediatica dai toni spesso esasperanti. Se di certo non è possibile affrontare il problema delle migrazioni dimenticandoci che siamo in presenza di una reale emergenza umanitaria, allo stesso tempo non è possibile pensare a una migrazione senza regolamentazione dei flussi che non possono essere assorbiti tutti dall’Italia e dalla Grecia. Ma anche qui siamo in assenza di una politica europea che tenga conto degli interessi di tutta l’Unione».

Dunque?
«A Bruxelles non ci sentono quando diciamo che i confini dell’Italia sono i confini della Ue e il problema resta nostro. La sola strada possibile è una vera politica per il Mediterraneo che fino ad oggi è mancata. Bisogna che si capisca che lasciare l’Africa al suo destino non è vantaggioso, da nessun punto di vista, per l’Europa. È necessario che, come sta avvenendo, si possa dialogare con la Libia perché eserciti un controllo, ma dobbiamo fare in modo che ciò avvenga nel pieno rispetto dei diritti dell’uomo. Non possiamo semplicemente lavarcene le mani. Il nostro ruolo deve essere di controllo e di dialogo costanti non solo con il governo libico bensì con tutte le tribù e le forze locali tra le quali si distribuisce oggi il frammentato potere del Paese. Per fare questo è strategico per l’Europa, e prima ancora per l’Italia, che la Libia torni a una stabilità che non sarà mai tale senza il coinvolgimento di tutti gli interlocutori».

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Fonte: Sir