Da marzo venti preti dietro le sbarre. Da fratelli

Sono sacerdoti diocesani che, dopo aver visitato la casa di reclusione di Padova Due Palazzi con le proprie comunità, da marzo condivideranno con più costanza il cammino della parrocchia del carcere guidata da don Marco Pozza. Sabato 18, la celebrazione con il vescovo Claudio che ha dato il via all’esperienza. Per la comunità diocesana ripartire dopo i mesi tormentati significa essere nella periferia delle periferie. Non solo un gesto simbolico, ma una scelta concreta, profetica per molti versi. Per il vescovo Claudio è questione di «umiltà», per ritrovare l’«identità, nonostante i nostri errori»

Da marzo venti preti dietro le sbarre. Da fratelli

La tenue nebbia avvolge un po’ tutto, di prima mattina; è una foschia buona, che lascia presagire il sole, quello che tra qualche ora illuminerà, scaldando. Le periferie, quando sono immerse nella luce incerta e precaria, sono ancor più anonime; il traffico sfuggente, le vie quasi deserte, le villette solitarie, i palazzoni indecifrabili.

Nel mezzo ci sta il carcere, quello del Due Palazzi di Padova, perso un po’ all’orizzonte, in un isolamento che sa di solitudine; quella a cui sono condannate le centinaia di detenuti che vi abitano e quelli che ci lavorano; due grandi edifici, ai margini della città, relegati. La chiesa di Padova, proprio in una mattina di nebbia provvisoria, decide di cominciare (ripartire?) da qui. C’è il vescovo, il cappellano don Marco Pozza, un gruppo di altri preti, i volontari, i catechisti e naturalmente i reclusi. Si sono dati appuntamento per riepilogare, per ritrovarsi, anzi per iniziare.

«Perché in chiesa – dice don Claudio – non ci vanno i buoni, quelli che si credono tali, ma chi ha sbagliato o quanto meno sta cercando».

E la comunità di chi crede, a Padova, dopo mesi di tormenti, ha bisogno di ritrovarsi in gesti di fede e luoghi di espiazione fiduciosa. Non c’è tristezza, niente rammarico, nulla che abbia il sapore della costrizione; soltanto il bisogno di riguardarsi, partendo da un luogo appartato, solo, rudemente periferico, autenticamente umile, evangelicamente tapino.

L’occasione non è di circostanza, né fortuita; arriva al termine di un cammino lungo almeno un anno; da quando il carcere si è aperto a quelle comunità parrocchiali che hanno voluto, anche soltanto per qualche ora domenicale, farsi coinvolgere dalla solitudine di questo luogo per legge solitario. Nei mesi scorsi tanti gruppi hanno fatto la fila davanti alle porte della galera; si sono spogliati di tutto, hanno abbandonato il benessere e vissuto la nudità essenziale, privata anche dell’immancabile cellulare o del rassicurante portafoglio.

Soltanto una visita? Un incontro? Non solo o quanto meno non soltanto. Se è vero che con lenta e insondabile tenacia un’idea si è fatta lentamente strada tra i mille impegni e le (talora) devianti incombenze di tanti parroci e cappellani. Che hanno deciso che quel luogo, quegli uomini reclusi, senza libertà e talora dignità, meritavano di più di una fugace attenzione; così, dal prossimo marzo, una ventina di preti padovani entreranno “regolarmente” (in termini di costanza e assiduità) in carcere per condividere, confortare, testimoniare, annunciare; lo faranno da fratelli.

La chiesa di Padova, dunque, riparte anche da qui, dal suo essere piccola, dal fare riferimento ai “bambini” che non hanno diritti. Non un gesto simbolico, ma una scelta concreta, che definire profetica potrebbe sembrare presuntuoso, ma che di certo ha il sapore della temerarietà pastorale. Una svolta? Anche ciò potrebbe apparire azzardato, ma i tempi e le circostanze spesso forzano la mano e spingono le situazioni oltre le intenzioni.

Il vescovo Claudio, rivolgendosi ai suoi (quattordici) preti presenti e a tutti gli altri, ha usato spesso il termine «umiltà»; riferendolo a uno dei grandi insegnamenti che questo tempo di tormento ha portato come dono, sofferto, non bellamente confezionato, ma non meno prezioso; una virtù che non può prescindere dall’autenticità, dal rigetto di quell’ipocrisia che trascina e coinvolge molti in giudizi e sentenze. Per questo, anche per ciò, la chiesa di Padova ha scelto la nebbia di una periferia delle periferie, un luogo difficile, in cui trovarsi e da cui riandare per una strada che «sia la ricerca della nostra identità di uomini amati, nonostante i nostri errori».

La Padova che crede, in un’anonima mattinata, ha avuto coraggio; lo stesso che forse dovrebbe avere una città, una comunità, i tanti, troppi, che guardano soltanto gli altri, dimenticandosi della scandalosa misericordia.

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