«La nostra missione in Etiopia? È essere presenti»

Quattro milioni di persone, 100 mila chilometri quadrati, un migliaio di cristiani. Al loro servizio un pugno di religiosi, suore, fidei donum e il vescovo emerito Mattiazzo. Presto alle dieci scuole si aggiungerà un ospedale neuropsichiatrico, «ma è la testimonianza, non le grandi opere, che edifica la chiesa», sottolinea padre Angelo Antolini, prefetto apostolico.

«La nostra missione in Etiopia? È essere presenti»

Sono passati esattamente trent’anni da quando Madre Teresa di Calcutta, per prima, aprì una missione a Robe, sugli sterminati altopiani del sud est dell’Etiopia.
La fiammella di allora, custodita da tre suore e un sacerdote in pieno regime comunista, non ha smesso di ardere e da sei anni si è trasformata in una prefettura apostolica (una diocesi allo stato embrionale), per volontà di papa Benedetto.

«La nostra missione oggi è essere presenti, essere segno attraverso comunità che si distinguano nell’amore e nella monogamia, che seguano attentamente i poveri. Siamo come una chiesa delle origini».
A parlare è padre Angelo Antolini, cappuccino marchigiano, una vita dedicata all’Etiopia e prefetto a Robe dopo 26 anni trascorsi con i confratelli a Sodo, oltre il fiume Onio, e poi a Kofole, in quella che oggi è una delle cinque parrocchie della prefettura.

Dei quattro milioni di persone che vivono nei 100 mila chilometri quadrati di territorio prefettizio, tre milioni e mezzo sono di etnia oromo, gli altri sono somali.
L’islam è la religione del 95 per cento della popolazione, con qualche presenza di cristiani ortodossi nei centri più popolosi. Gli oromo sono un grande popolo e costituiscono oltre il 40 per cento della popolazione dell’intera Etiopia, compresa la capitale Addis Abeba. Tradizionalmente allevatori semi nomadi la cui ricchezza dipendeva dal bestiame, da due generazioni stanno diventando agricoltori stanziali. È un insieme di regole non scritte, la gadà, a reggere la loro società e a proteggere il popolo fin dal medioevo. Chi le accetta diventa uno di loro. Un passaggio fondamentale per portare il vangelo tra queste genti. 

Così anche padre Angelo, che da cinque anni “corre il mondo” perché ha capito che l’alba di questa chiesa ha bisogno dell’aiuto di chiunque possa sostenerla, dopo la nomina a prefetto ha vissuto la liturgia tradizionale con cui gli oromo lo hanno assimilato. Un rito in cui il cappuccino è stato unto con sangue di agnello e ha ricevuto il bastone del padre della legge, con cui il popolo gli ha espresso fedeltà.

Un episodio che ha generato tensioni, specie tra alcuni oromo originari del nord del paese, cristiani ortodossi.
Non sono mancate minacce e intimidazioni, ma la gran parte della popolazione ha compreso come il missionario stia dalla loro parte. E la prova è nel totale rispetto per la missione durante le gravi tensioni che hanno scosso il paese lo scorso anno, portandolo sull’orlo della guerra civile, di cui il mondo si è accorto solo grazie al gesto del maratoneta etiope Feysa Lilesa, medaglia d’argento a Rio 2016.

Oggi il personale in missione si conta sulle dita di due mani. Oltre al prefetto, a Robe ci sono due padri Lazaristi etiopi, tra cui padre Mokonen l’unico sacerdote di etnia oromo. Il vescovo emerito di Padova, Antonio Mattiazzo, ha scelto Robe per la sua “pensione” e opera a Kokossa assieme a fratel Matteo, un fidei donum della diocesi di Anagni-Alatri in loco da tre anni. C’è poi padre Bernardo Coccia, cappuccino parroco a Kofole, dove lavorano anche le suore Francescane missionarie nate a Rimini, che oggi contano più di cinquanta sorelle etiopi. A Goba poi le suore di Madre Teresa offrono assistenza a 300 malati mentali.

«A Kofole, Adaba, Dodola, Kokossa e Gode la chiesa cresce – riprende padre Angelo – Non mancano nemmeno le conversioni dall’islam, vissute a volte con sofferenza, ma la libertà religiosa è rispettata e la convivenza è pacifica anche se il clima mondiale non ci aiuta».
Nelle comunità, la famiglia è centrale: «Il segno più bello è la monogamia. I cattolici sono orgogliosi di non avere famiglie “difficili” come i loro genitori. Nella poligamia la donna deve sopportare violenze psicologiche pesanti e l’uomo non è altro che un “inseminatore”. I figli non hanno riferimenti paterni».
A Robe e Goba, la situazione è differente per la presenza di ortodossi del nord, coloni dell’impero cristiano imposto per 80 anni alle popolazioni del sud. Il dialogo è più teso, ma le cose cambieranno grazie al progetto che da oltre due anni la prefettura sta conducendo anche grazie alla chiesa di Padova, che ha sposato questa missione.

Nell’arco di un anno nascerà un ospedale neuropsichiatrico e si aggiungerà così alle dieci scuole che già la chiesa gestisce.
«Grazie all’ospedale daremo supporto alle suore di Madre Teresa e potremo così dedicarci agli ultimi degli ultimi, per i quali il governo non riesce a realizzare nessun intervento».
Ma questa è l’unica vera opera in vista:

 «Qui a Robe, i grandi progetti sono destinati a fallire in partenza. Ciò che conta è esserci, rimanere e annunciare. Serviranno ancora almeno 40 anni di missionari, segno che donare la vita per Dio vale la pena, per radicarci per davvero. Sempre nel nome di Madre Teresa, oggi patrona della prefettura».

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