Nasce il Rei, reddito di inclusione. La lotta alla povertà diventerà prioritaria?

È la prima misura universale fondata sull’esistenza di una condizione di bisogno economico e non sull’appartenenza a determinate categorie. Il prof. Luigi Campiglio della Cattolica di Milano analizza i possibili effetti del nuovo strumento di contrasto alle situazioni di difficoltà economica: «La lotta alla povertà dovrebbe essere prioritaria».

Nasce il Rei, reddito di inclusione. La lotta alla povertà diventerà prioritaria?

Il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge – collegato alla manovra finanziaria – per contrastare la povertà.
Il ddl delega l’esecutivo ad adottare entro sei mesi più misure per limitare le situazioni di povertà assoluta. Il fulcro del provvedimento dovrebbe essere rappresentato dall’introduzione del cosiddetto reddito di inclusione. Sono inoltre previsti provvedimenti di riordino delle prestazioni di natura assistenziale e di rafforzamento degli interventi dei servizi sociali. Con il Rei – reddito di inclusione – si introduce una misura universale fondata sull’esistenza di una condizione di bisogno economico e non più sull’appartenenza a particolari categorie (anziani, disoccupati e disabili). Fruitori del reddito di inclusione saranno circa 400 mila nuclei familiari con minori a carico, pari a un milione e 770 mila individui.

Il reddito di inclusione, a differenza dell’attuale social card dell’Inps di 400 euro al mese, sarà aumentato a circa 480 euro mensili.
Come ha spiegato il ministro del lavoro Giuliano Poletti, i principi della delega stabiliscono che il reddito di inclusione deve essere una misura unica a livello nazionale, di carattere universale, subordinata alla prova dei mezzi e all’adesione ad un progetto personalizzato di inclusione. Per beneficiare della misura sarà previsto un requisito di durata minima di residenza nel territorio nazionale.
Sarà previsto inoltre un graduale incremento dell’estensione dei beneficiari, da individuare prioritariamente tra i nuclei familiari con figli minori o con disabilità grave, donne in stato di gravidanza e disoccupati di età superiore a 55 anni.

«Da una prima stima approssimativa – sottolinea Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica alla Cattolica di Milano, che ha da poco terminato un paper accademico proprio sulla povertà – le misure dovrebbero riguardare circa 400 mila famiglie, una parte ancora purtroppo molto contenuta rispetto alla gravità della situazione. La crisi ha aumentato proprio il numero di persone che ricadono in quella che viene chiamata povertà assoluta, ossia di quelle famiglie che con l’austerità hanno oltremodo “tirato la cinghia”».

Nel suo studio ha analizzato una situazione “allarmante”: quali sono i dati che più la preoccupano?
«Un dato è emerso con forza: le famiglie nelle condizioni più difficili, possiamo dire povere, sono nuclei con una quota di entrate che per il 50 per cento e oltre viene utilizzata per la casa e per le spese collegate. Affitto, mutuo, spese condominiali e il sostentamento alimentare comprimono quasi tutte le risorse disponibili, a discapito degli altri consumi primari. Le famiglie più penalizzate sono quelle con uno o più figli e monoreddito. O quelle famiglie che partendo dal doppio reddito si ritrovano con una sola entrata mensile».

Fino ad ora eravamo l’unico paese, insieme alla Grecia, privo di una misura strutturale di contrasto alla povertà.
«In altri paesi misure simili sono attive da molto tempo. Anche gli Usa, di certo una nazione non propriamente assistenzialista, dal 1964 in poi, con la presidenza Johnson, attuano politiche contro la povertà. Senza quel flusso di redditi, specie negli stati del Sud, ad oggi ci sarebbero fasce enormi di popolazione in stato di povertà assoluta. Misure come lo “Snap” – Supplemental nutrition assistance program – consentono, nella ricca America, alle fasce più povere di nutrirsi adeguatamente».

Con gli attuali vincoli di finanza pubblica, dove spenderebbe risorse pubbliche per contrastare la povertà e favorire l’inclusione sociale?

«Lotta alla povertà e provvedimenti per il sostegno del reddito delle famiglie dovrebbero essere un obiettivo di tipo primario. Così come l’inclusione sociale, peraltro assai più difficile da inquadrare. Più che una misura riterrei fondamentale una strategia: i bisogni delle persone sono talmente eterogenei che il “livello centrale” dovrebbe svolgere solo il coordinamento, perché è al livello locale che si percepisce il bisogno e si conoscono le realtà delle comunità: bambini, anziani, disabili, emarginati. Più che una generica lotta alla povertà mi piacerebbe un grande programma di protezione sociale degli “indifesi”».

La situazione è omogenea nel paese?
«Nord e Sud non sono molto diversi in realtà. C’è tuttavia una grande variabile: il costo dell’abitazione, molto più alto al Nord. Da solo pesa per circa un terzo del differenziale dei consumi tra le due aree. Chi è senza casa è un “indifeso” per antonomasia e di fatto garantire un tetto e una situazione dignitosa al Nord costa molto più che al Sud. Il Sud sconta invece una situazione più seria per l’emarginazione giovanile».

Si tratta di un progressivo impoverimento o la situazione si è deteriorata con la crisi?
«I problemi risalgono a ben prima della crisi. Il Pil nel 2016 è ritornato al livello del 2000. Solo che nel frattempo la popolazione italiana, grazie all’immigrazione, è aumentata di 4/5 milioni. Quindi pro-capite il livello dell’attuale Pil è indietro di ulteriori 2/3 anni rispetto al 2010».

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