Ortigara, cento anni dopo. Nulla da celebrare, tutto da ricordare

Questo fine settimana Asiago e gli alpini ricordano i cento anni della battaglia dell'Ortigara. A quei giorni terribili, che rimangono scolpiti nella memoria nazionale come il "calvario degli alpini", è dedicato l'ultimo appuntamento prima delle ferie con APPunti, l'inserto mensile di approfondimento realizzato dai settimanali diocesani di Padova e Vicenza.
Otto pagine, introdotte da questo editoriale dei due direttori, che aiutano a ripercorrere le vicende storiche, il senso, l'eredità di uno dei momenti cruciali della Grande guerra. E invitano a salire in Altopiano per scoprire come i luoghi della cruenta battaglia siano oggi un grande museo all'aria aperta.

Ortigara, cento anni dopo. Nulla da celebrare, tutto da ricordare

«Oggi non è un giorno di festa. Viviamolo con anima mesta e quando andiamo per i boschi del nostro altopiano ricordiamoci delle decine di migliaia di uomini che qui hanno trovato la morte».

Parole del sindaco di Asiago Roberto Rigoni Stern, pronunciate due anni fa ma che nulla hanno perso della loro forza.
Tornano alla mente in questi giorni in cui l’Altopiano si va riempendo di penne nere e il ricordo commosso va a quanti tra le creste dell’Ortigara combatterono – dall’una e dall’altra parte – una delle battaglie più sanguinose e più inutili della Grande guerra.
Loro, gli eredi di quegli alpini che lì conobbero il loro calvario, si stringeranno sabato pomeriggio attorno all’arcivescovo Gloder per la messa solenne celebrata al sacrario e domenica attorno al vescovo Cipolla e alla colonna mozza dell’Ortigara. Prima la messa, poi la deposizione delle corone d’alloro ai cippi italiano e austroungarico.

Un secolo dopo non c’è da celebrare una vittoria, c’è invece da continuare a fare memoria.
Non si può, non ci si deve dimenticare di una immane strage che ha accomunato italiani, austriaci, tedeschi, ungheresi, francesi, inglesi chiamati a combattersi e ad uccidersi tra boschi e monti che, un secolo dopo, ancora conservano i resti di oltre 80 mila dispersi da aggiungere ai 50 mila e più caduti le cui spoglie riposano sul Leiten e nei tanti cimiteri di guerra dell’Altopiano.

Qui davvero la guerra “moderna” ha mostrato la sua violenza insensata, che tutto travolge e nulla risparmia: soldati, famiglie, comunità, tradizioni, natura.
Sull’Ortigara, in particolare, ha mostrato quanto lontana fosse ormai dalla retorica risorgimentale, dalla “ferrea volontà” e dallo “slancio morale” di un pugno di eroi. Tra i reticolati, le trincee, i tiri d’artiglieria, l’odore acre dei gas una intera civiltà – sul fronte italiano, su quello russo, sulla Somme – ha smarrito i suoi miti e si è ritrovata nuda e impotente di fronte al demone che aveva suscitato.

Se ne accorse il vescovo di Padova Luigi Pellizzo, che dopo aver visitato l’Altopiano ne scrisse al papa sintetizzando quel dramma in due sole parole, «inutile carneficina», destinate a ispirare la celebre definizione della guerra come «inutile strage» che Benedetto XV avrebbe offerto al mondo nell’agosto del 1917.

Se ne accorse il vescovo di Vicenza Ferdinando Rodolfi, che pure rivolgendosi a Benedetto XV scrisse: «Questa ormai non è più guerra, è brutalità, è aggressione violenta del debole e dell’innocente».

Le parole del papa furono profetiche e – come quasi sempre accade ai profeti – rimaste inascoltate da un mondo che continua imperterrito ad armarsi e a combattere in quella che papa Francesco ha definito con felice intuizione una vera e propria “terza guerra mondiale” combattuta a pezzetti, a capitoli, solo all’apparenza scoordinati l’uno dall’altro.

Un secolo dopo, non si può dimenticare che per la gente dei Sette comuni la guerra segnò la fine di un’epoca durata secoli.
Appena un anno dal primo colpo di cannone, e per le popolazioni civili sarebbe iniziata la durissima esperienza del profugato, accompagnati dai loro parroci in un esilio destinato a durare fino al termine della guerra e segnato anche da ostilità, diffidenza, incomprensioni da parte dei paesi che li vedevano arrivare.

A volte evocare coincidenze o similitudini tra drammi tanto distanti nel tempo è un artificioso esercizio retorico.
Eppure, in questo caso, è difficile non cedere alla suggestione di domandarsi quanta parte abbiano le guerre, nell’alimentare il viaggio della speranza che decine di migliaia di persone intraprendono dalle coste africane verso l’Italia. E quanta parte di responsabilità hanno politiche tutte protese a coltivare e tutelare gelosamente il proprio orticello di casa, immaginando forse di vivere ancora in un mondo chiuso alla globalizzazione e all’interdipendenza dei popoli?

Un secolo dopo, l’Europa che si ferma a fare memoria di una generazione perduta sa che per fortuna il tempo non è trascorso invano. Le Alpi sono diventate uno straordinario patrimonio condiviso, le cui cime si conquistano solo per ardore alpinistico e da cui si ridiscende a valle senza dover mostrare alcun passaporto. Una nuova generazione ha imparato che con i coetanei francesi, tedeschi, belgi, austriaci si può studiare e vivere assieme, come cittadini di un unico grande spazio condiviso, usando la stessa moneta, condividendo gusti, linguaggi, speranze.

Oggi diamo per scontato ciò che allora era inimmaginabile.
Così per scontato, che il rischio di vederlo dissolversi sotto le spinte di troppi risorgenti nazionalismi inizia a farsi concreto: la moneta non è tutto, l’unità è un cammino mai concluso, la stessa democrazia ha vacillato pericolosamente più d’una volta.

Un anno fa, il presidente Mattarella ce lo ricordava da Asiago con parole nobili e appassionate:
«Possiamo ben dirlo oggi: è stata la pace, non la guerra, ad assicurare stabilità e progresso. Assicurare un futuro di pace, di benessere e di diritti, è il sogno che ci chiedono le nuove generazioni. Un grido silenzioso sale dai tanti cimiteri militari. Raccogliere questo sogno e quel grido è, oggi, il miglior modo per rendere onore a chi è caduto per la sua Patria e per rispettare tanto sangue versato».

Un secolo dopo, non c’è nulla da celebrare, nulla da ammantare di sterile retorica. C’è, però, tutto da ricordare. E spiegare, e raccontare. Perché se il dramma della Grande guerra parla ancora al mondo di oggi, è per dirci che la pace – quella vera, che può costruirsi solo in una consapevole fraternità – è ancora da costruire: in Italia, in Europa, nel mondo. E passa, prima di tutto, dai nostri cuori.

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