C'è il mondo intero in guerra per il controllo dell'acqua

Dalla Grande diga della Rinascita voluta dall'Etiopia sul fiume Nilo, al Mekong, la più importante risorsa idrica in Indocina, passando per il Medio oriente, Israele e l'Anatolia. L'oro blu, come viene chiamata sempre più spesso l'acqua, sta alterando gli interessi geopolitici e le nazioni si ritrovano al centro di dispute per il suo controllo 

C'è il mondo intero in guerra per il controllo dell'acqua

«Mi chiedo se in questa terza guerra a pezzi stiamo in cammino verso la grande guerra mondiale per l'acqua».
È il monito lanciato da papa Francesco durante il seminario del 24 febbraio scorso sul diritto all'acqua, alla Casina Pio IV, sede della Pontificia accademia delle scienze. Una preoccupazione che Bergoglio ha manifestato sin dall’inizio del suo pontificato, nel 2013.

Timori ben giustificati. Perché esiste l’oro nero, appellativo che rimanda al petrolio; ed esiste l’oro blu, o detto anche “trasparente”, termine sempre più diffuso in trattati o studi che hanno al centro il tema dell’acqua potabile.
Una definizione che, di fatto, sottolinea quanto un bene comune dell’umanità stia diventando sempre più un interesse economico, tanto da essere paragonato al bene rifugio per eccellenza qual è, per l’appunto, l’oro.
La gestione della sua disponibilità sta mutando gli interessi geopolitici: il controllo di bacini idrografici, di dighe e di fiumi pone “vis-à-vis” le nazioni, con il rischio di sfociare in conflitti in quelle zone del mondo dove già si registrano forti tensioni politiche.

I cambiamenti climatici, il rischio di siccità, il controllo di aree economiche stanno ridisegnando i programmi politici e particolare rilevanza rivestono le acque transfrontaliere che attraversano o delimitano i territori di più stati e che, pertanto, richiedono regole per un equo utilizzo.
Dalle sorgenti al delta, il Nilo, per esempio, comprendendo il suo bacino idrografico, attraversa dieci paesi africani, su tutti Egitto, Etiopia e Sudan che nel corso dei decenni si sono più volte scontrati. Nel 1970 l’Egitto completò la costruzione della diga di Assuan che ha determinato lo sfollamento forzato di 90 mila sudanesi, mentre si discute ancora a lungo sulla Grande diga della Rinascita, la faraonica struttura – è il caso di dirlo – con tanto di centrali idroelettriche che l’Etiopia sta ergendo sull’affluente Nilo azzurro.

Un altro fiume al centro di dispute è il Mekong, la più importante risorsa d’acqua in Indocina su cui pesa il ruolo della Cina che va assumendo una nuova leadership anche nella gestione delle acque internazionali. Il fiume, dall’altopiano del Tibet, attraversa sei paesi e il Laos ha intenzione di costruire la diga Don Sahong, un progetto, gestito da tecnici cinesi, che danneggerebbe, secondo gli oppositori, la pesca in Cambogia, Thailandia e Vietnam.

Ma i possibili focolai di conflitti e tensione sono sparsi in tutto il globo
In Asia centrale, il Tagikistan sta costruendo un’infrastruttura idroelettrica sull’affluente del fiume Amu Darya che minaccia i paesi a valle, come l’Uzbekistan; l’organizzazione ambientalista Green cross, invece, per evitare casi diplomatici monitora la qualità dell’acqua nel tratto del bacino idrografico del Rio de la Plata compreso tra Argentina e Uruguay. Quest’ultimo, nel 2007, ha installato un impianto per la produzione di pasta di cellulosa altamente inquinante per le autorità di Buenos Aires.
E poi ci sono il fiume Giordano e i pozzi della Cisgiordania, sfruttati principalmente da Israele a discapito di Libano, Siria e Palestina; o la regione dell’Anatolia dove Turchia, Iraq e Siria condividono il corso dei fiumi Tigri ed Eufrate, culle della civiltà che, a distanza di millenni, sono ancora vitali per l’esistenza umana.

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