L'ambiguità della Turchia sull'Isis e quel sogno di ricostruire Kobane

Continua la condotta ondivaga di Erdogan. Sceso in guerra contro l'Isis dopo il sanguinoso attentato di Suruç del 20 luglio nel quale hanno perso la vita 32 giovani, il presidente in realtà ha bombardato anche le postazioni curde. L'intervista a Davide Veronese, giovane padovano che ha visitato il Kurdistan turco appena cessati i combattimenti e ha toccato con mano il sogno di ricostruire la devastata Kobane (nella foto, uno dei campi profughi sorti al confine turco-siriano).
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L'ambiguità della Turchia sull'Isis e quel sogno di ricostruire Kobane

Ci è voluto un attentato kamikaze in terra turca per smuovere il presidente Recep Tayyip Erdogan, da mesi apparentemente indifferente all’avanzata dello stato islamico nella vicinissima Siria e in Iraq. Lo sterminio di 32 giovani, per lo più studenti curdi e aleviti con il sogno di ricostruire la devastata Kobane, città siriana a una manciata di chilometri dalla Turchia, è avvenuto a Suruç, dirimpettaia turca di Kobane. Immediati i bombardamenti turchi alle postazioni siriane dell’Isis.

Ma le accuse del califfato – «l’esercito turco fa parte dell’esercito dei crociati», avrebbe detto un imam fedele allo stato islamico dalla roccaforte di Raqqa – disegnano un quadro tutt’altro che esauriente della strategia turca. Nei giorni immediatamente seguenti l’attentato di Suruç infatti, i caccia di Erdogan hanno colpito anche basi, rifugi e altre aree mirate dei curdi nel nord dell’Iraq inclusi i monti Qandil dove ha sede il Pkk (il partito dei lavoratori curdi).

Il popolo curdo, che da decenni aspira alla creazione di uno stato proprio – oggi il Kurdistan rappresenta un’estesa area geografica dislocata tra Turchia, Siria e Iraq – da mesi combatte da solo sul territorio lo stato islamico. La Turchia insomma bombarda da entrambe le parti e continua di fatto l’ambiguità della propria condotta.

Solo due mesi fa, il presidente Erdogan aveva chiesto l’ergastolo per Can Dundar, direttore del quotidiano Cumhuryet, “colpevole” di aver documentato l’invio di armi al califfato da parte di Ankara. Il 20 giugno scorso gli stessi curdi, riconquistata la città di Tel Abyat, hanno scoperto un tunnel di 500 metri ancora non completato che l’avrebbe collegata al villaggio turco di Akcakale da cui sarebbero arrivati rifornimenti, armi e foreign fighters. Il tutto rimanendo parte integrante della Nato, la più grande organizzazione militare occidentale in lotta con l’Isis.

E proprio alla Nato Erdogan ha chiesto un vertice straordinario per discutere la situazione della regione. Vertice che si è tenuto martedì scorso (28 luglio) con un esito alquanto discutibile. L’alleanza atlantica, compatta, ha espresso sostegno ad Ankara, mentre dieci dei 28 paesi membri hanno ingiunto alla Turchia di non abbandonare il processo di pace con i curdi e adottare azioni «proporzionate».

Ma la risposta di Erdogan non è stata del tenore sperato da Ue, Italia e Francia in primis. «È impossibile continuare un processo di pace con chi minaccia la nostra unità nazionale – ha detto il presidente turco parlando delle forza armate curde, finendo per chiedere anche la revoca dell’immunità ai deputati «legati al terrorismo»: il riferimento chiaro è al Partito democratico del popolo, il curdo Hdp di Demirtas che alle recenti elezioni ha raggiunto il 13 per cento dei consensi.

La tregua annunciata nel 2013 dal carcere dal leader storico del Pkk, Abdullah Oçalan, a questo punto è saltata. Regge invece l’intesa con gli Usa per l’utilizzo della base di Incirlik e la creazione di una zona cuscinetto sul confine siriano larga 60 miglia.

Con una situazione interna a un passo dall’essere definita fuori controllo, anche per la censura applicata a Facebook e Twitter, Erdogan intende quindi approfittare dell’emergenza Isis per regolare i conti con i curdi, inserendo una nuova variabile in un quadro di per sé già alquanto complicato.

Il sogno di ricostruire la devastata Kobane

Ricostruire Kobane. È questo il sogno che ha condotto alla morte i 32 giovani nell’attentato di lunedì 20 luglio a Suruç. Un sogno che Davide Veronese, padovano di Sant’Urbano, ha toccato con mano nelle tre visite in questa località turca di confine, da cui Kobane, in Siria per una manciata di chilometri, è persino visibile.

Di stanza per sei mesi a Gaziantep (80 chilometri da Aleppo, nel nord della Siria) grazie al progetto di volontariato internazionale Active citizens, nell’ambito di Erasmus plus, che lo ha portato in Turchia con l’associazione culturale Strauss di Mussomeli (CL), per formare i giovani alla cittadinanza attiva, alla comunicazione e alle lingue straniere, Veronese è arrivato a Suruç qualche settimana fa, appena dopo la fine della fase più calda dei combattimenti.

Qual è la situazione sul territorio?
«Suruç è una città profondamente curda, come del resto gran parte dell’est della Turchia. In queste aree a contare di fatto è il Pkk, il partito dei lavoratori curdo, si respira maggiormente l’influenza araba ed è evidente una maggior religiosità. Certo, in questi mesi la minaccia dell’Isis e i continui combattimenti stanno lasciando un segno profondo».

Qual è il simbolo dello stato di emergenza?
«I campi profughi. Dallo scorso settembre le autorità locali hanno ripetutamente chiesto sostegno logistico per i profughi siriani, specie da Kobane, al governo turco. Erdogan ha accettato, ma ha realizzato con grande lentezza appena due campi. A quel punto la municipalità di Suruç, assieme al Centro di coordinamento crisi curdo, ha preso in mano la situazione e ha costruito altri sei campi autonomi nella città».

Chi gestisce questi campi?
«Di fatto sono autogestiti, con il sostegno di alcune ong internazionali come Sport for life, giapponese scacciata dal governo turco, e 222 ministries che appartiene a una chiesa olandese, stranamente tollerata. Questa organizzazione ha potuto installare una cucina nel campo più popoloso, quello di Külünçe, anche se per sei mesi è arrivato solo del riso da mangiare».

Qual è lo stato d’animo della gente?
«La gente se ne vuole andare dai campi. Vuole tornare a Kobane e nelle altre città siriane che hanno dovuto abbandonare, oppure rifarsi una vita lavorando in Turchia o in Europa. Ho conosciuto persone come Selava, di 22 anni, che studiava legge ad Aleppo e ha mollato tutto per andare a Kobane e sostenere i combattenti curdi e ora aiuta le famiglie nei campi per conto di Sport for life, ma spera di tornare a Kobane il prima possibile. La nostalgia della sua famiglia, ad Aleppo, non manca, ma sente che è suo dovere stare lì. Oppure suo fratello, Apo, 19 anni, che non vuole combattere, né per una parte né per l’altra. La sua aspirazione è studiare, ed è disposto anche a emigrare in Europa, con qualsiasi mezzo».

Come viene percepita la posizione turca sul territorio?
«Il doppio gioco è evidente. Due esempi su tutti: gli aiuti inviati per i due milioni di profughi siriani da parte dell’Unione Europea vengono spesso bloccati al confine con la Bulgaria. Mentre il confine a Suruç è aperto per curdi e siriani solo in uscita: così è impossibile sostenere gli abitanti di Kobane. Non solo, la Turchia stoppava i curdi che volevano andare a combattere e contemporaneamente acquistava petrolio dall’Isis, sostenendolo economicamente. In generale fra turchi e curdi, che ufficialmente sono 6 milioni ma fonti ufficiose parlano di 20 milioni, non corre buon sangue, e i bombardamenti di questi giorni non miglioreranno la situazione».

Quale seguito avrà questa esperienza?
«Nei mesi scorsi, nel Padovano e sul cammino di Santiago, ho promosso una raccolta fondi per Külünçe. Poco prima dell’attentato al centro di coordinamento curdo sono riuscito a inviarli a una persona fidata che però ora ha interrotto i contatti via Facebook per ragioni di sicurezza. L’idea è quella di creare una fondazione internazionale, ma la difficoltà maggiore è proprio quella di raggiungere gli interlocutori in loco».

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