Saranno le donne ad abbattere i muri tra Israele e Palestina?

Oggi sono più di 20 mila, di ogni religione e provenienza, gli aderenti all’associazione Women wage peace, nata tre anni fa, ma la speranza è di raggiungere il milione di iscritti per condizionare la politica e spingere verso la pace. «Insieme, israeliane e palestinesi, possiamo fare la differenza».

Saranno le donne ad abbattere i muri tra Israele e Palestina?

Saranno le donne ad abbattere i muri – materiali e immateriali, ma non per questo meno duri – che dividono israeliani e palestinesi, aprendo percorsi nuovi all’insegna della pacifica convivenza?
La domanda sorge vedendo la determinazione che anima Women wage peace, un movimento sorto tre anni fa dopo il rapimento e l’uccisione di tre giovani israeliani, oggi formato da oltre 20 mila persone (per l’80 per cento donne, appunto, alle quali è affidata la gestione) di diverse categorie, provenienze e fedi religiose, impegnate a creare un nuovo linguaggio di pace.

Abbiamo incontrato due amiche attiviste dell’associazione: l’israeliana Alisha Eshet Moses e l’arabo-israeliana Ghadir Hani.
«Sappiamo che ci sono problemi tra le due parti, ma l’unica soluzione per noi è sedersi insieme, affrontare le questioni e risolverle senza violenza, senz’armi – ha esordito Eshet Moses – Il nostro obiettivo è arrivare a qualche milione di aderenti al movimento per fare lobby, per dire ai politici che vogliamo la pace e loro devono impegnarsi a raggiungerla perché noi siamo parte dell’elettorato e quindi possiamo convincerli a sedere al tavolo negoziale».
La partecipazione ai negoziati delle donne (riconosciuta nel 2000 dalla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’Onu) israeliane e palestinesi è infatti uno degli obiettivi primari che Women wage peace punta a conseguire, nella convinzione che «noi donne la pensiamo un po’ diversamente dagli uomini, possiamo fare la differenza e cambiare le cose per raggiungere la pace».
Attualmente l’associazione fa già lobbying nel parlamento israeliano e partecipa alle discussioni. Promotrice di alcune marce, tra le quali quella da Gerico a Gerusalemme con più di 20 mila donne cristiane, ebree e musulmane, di cui un migliaio giunte dalla Cisgiordania, sta pensando al viaggio della pace, un obiettivo che «prima o poi raggiungeremo», afferma convintamente Eshet Moses. Prima di quattro figli di madre marocchina e padre indiano, è nata ad Ashdod, una piccola città del sud di Israele che si affaccia sul Mediterraneo.

«Già da bambina rifiutavo il modello di società patriarcale in cui sono cresciuta e pensavo che le donne facessero parte a pieno titolo della comunità e avessero il dovere di cambiare le cose. Mi sono laureata e ho cominciato a viaggiare da sola in Europa, zaino in spalla, e soprattutto ho insegnato a mia figlia che le donne possono realizzare grandi cambiamenti nel mondo».

Anche lei ha trascorso due anni nell’esercito, come avviene normalmente in Israele («Ma questo obbligo deve finire», sottolinea) e oggi è presidente della Wizo Even Yehuda Israel (organizzazione internazionale delle donne sioniste) che cerca di aiutare bambini e donne soprattutto nei casi di abusi, disagi economici e violenze.
«Rimane moltissimo da fare, nulla è facile, ma se le donne riusciranno ad accedere ai centri decisionali, alle sale dei negoziati, la pace verrà. Abbiamo bisogno di un accordo politico che coinvolga entrambe le parti e continuiamo a lanciare appelli per questo. Io sono pronta per la pace!». E al polso porta un braccialetto azzurro, offerto anche ai presenti all’incontro riminese, che toglierà soltanto quando la pacificazione sarà stata raggiunta.

Ghadir Hani è una cittadina arabo-israeliana di San Giovanni d’Acri e da 18 anni opera nei villaggi arabo-beduini nella regione del Negev per lo sviluppo economico e l’informazione delle donne, oltre a essere volontaria in associazioni impegnate contro la violenza di genere e per lo sviluppo della comunità araba nel Negev.
«Ho aderito al movimento due anni fa dopo la guerra a Gaza – ha dichiarato alla platea del Meeting di Comunione e liberazione a Rimini – perché ho visto quante donne fossero interessate a cambiare la situazione e a giungere alla fine del conflitto in questa regione, che ha portato perdite ad entrambe le parti».

«Io come donna arabo-palestinese che vive nello stato israeliano, e avendo parenti dall’altra parte che sono anche il mio popolo, mi sono sentita chiamata in causa in prima persona. Sono entrata nel movimento perché credo che la situazione possa cambiare. Abitavo in una città mista e ben consapevole dell’importanza di poter convivere insieme. A 22 anni mi trasferii nel Negev, in un villaggio arabo durante la seconda Intifada. La situazione per me era molto complessa. Lavoravo con gli arabi ma mi mancava il rapporto che avevo sempre avuto con i miei vicini ebrei e cristiani, con i quali, per esempio, risparmiavamo dei soldi per decorare insieme l’albero di Natale».

In seguito l’incontro con colei che sarebbe diventata la sua datrice di lavoro ha portato Hani a promuovere l’unione tra donne ebree e arabe, cercando di acquisire dalle rispettive fedi religiose quegli elementi comuni che potessero dimostrarne la vicinanza. Ha operato per organizzazioni impegnate a sviluppare i rapporti arabo-israeliani.
«Abbiamo organizzato incontri religiosi con esponenti di entrambe le fedi. Oggi lavoro con donne arabe del Negev che in passato non hanno mai avuto la possibilità di incontrarsi con donne di altre religioni. Ho compreso che il cambiamento è graduale, ma le donne mostrano grande disponibilità. Hanno espresso il loro interesse a far parte di questa organizzazione perché comprendono di avere tra le mani il loro futuro e quello dei figli. Sanno di avere la responsabilità di educarli a comprendere l’importanza della pace, al di là della fede religiosa».

Il cammino è iniziato e «dobbiamo collaborare insieme arabi, ebrei, musulmani e drusi, tutte le fazioni e correnti politiche, per creare la pace che garantirà un futuro sicuro per tutti noi».

Alberto Margoni

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