La bella lezione di Pietro Martire: «Mai arrendersi. In campo e nella vita»

Pietro Martire, classe 1979, dopo l’incidente di gioco subito nell’aprile del 2004 proprio con la maglia della Camponogarese («Vigilia di Pasqua, era un recupero, contro il Villatora ed era esattamente il 10 aprile, certo che me lo ricordo») ha dovuto ripartire in carrozzina. Da alcuni mesi presidente della Camponogarese, lavora per i servizi informatici della regione Veneto (al Vega di Marghera). Sposato con Paola, vive a Dolo.

La bella lezione di Pietro Martire: «Mai arrendersi. In campo e nella vita»

Sulla copertina del pieghevole c’è scritto: “Programma”.
Lo apri e lì in alto a sinistra, ecco indicato che «il principale obiettivo che ci proponiamo è quello di promuovere i valori sportivi quali: umiltà-sacrificio-impegno-fair play-rispetto delle regole-lo stare assieme e condividere sconfitte e vittorie».
Già, sconfitte e vittorie, scritto proprio così, prima le sconfitte, poi le vittorie. Il tutto tramite il calcio, quello che sempre nel pieghevole è definito «il più bello e praticato sport del mondo».

È questo in sintesi il tipo di percorso su cui, da quando è diventato presidente della Camponogarese (Seconda categoria, girone L), ha voluto puntare Pietro Martire, 38 anni, ex calciatore, tra l’altro pure con la Camponogarese.
Mentre racconta e spiega, non posso non pensare che sono lì, a Camponogara, allo stadio, letteralmente a pochi metri da quella porta – dalla parte degli spogliatoi – dove nell’aprile del 2004 la sua vita è completamente cambiata, davvero uno spartiacque.

Un’azione d’attacco, un fallo di un difensore e lui, Pietro, che cade malamente: una lesione al midollo e la vita che da così diventa così, in carrozzina. Lui che viveva per il gol, lui che quella scossa che dava la palla che entrava in rete la viveva praticamente come una droga, sì, una dipendenza, una scossa che quando riusciva a segnare (e ne faceva parecchi di gol) dice e ricorda che gli faceva partire bene la settimana, era sempre un lunedì speciale, così anche le botte prese magari le sentiva bene.

Tipo tosto Pietro, che si mise subito d’impegno per recuperare il più possibile, per imparare a ri-conoscere quel suo corpo cambiato, che non rispondeva più come prima e doveva essere allenato, ancora e ancora.
Tipo tosto Pietro, che non si è rinchiuso in casa ma ha cercato di continuare a crescere, a imparare, buttandosi pure su esperienze “estreme”, tipo lanciarsi col paracadute o farsi le sue belle maratone con l’handbike.
Ha allenato per anni una squadra di calcetto (pardon, calcio a cinque), ha fondato l’associazione “Oltre il muro”, battendosi per l’abbattimento delle famose barriere architettoniche con cui hanno a che fare, mi vien da dire passo passo ed è una involontaria battuta, i cosiddetti disabili.
Ed ecco così, lo scorso dicembre, l’iniziativa denominata “skarrozzanDolo”, convincendo tutta l’amministrazione comunale di Dolo a mettersi su una carrozzina e a seguirlo su un percorso scelto da lui, per le vie della cittadina. Come dire, insomma, toccare per credere, tanto è vero che già più di una barriera in cui gli amministratori s’erano imbattuti, ora è stata rimossa. 

Tipo tosto Pietro, che è stato uno degli animatori della campagna “Vuoi il mio parcheggio? Vuoi anche il mio handicap?”, con la relativa cartellonistica sistemata a Dolo, a Peraga e nella stessa Camponogara.
Tipo tosto Pietro che sino ad alcuni anni fa si rendeva conto di essere disabile giusto per gli sguardi dei “normali”, ma che ora non ci fa più caso e gira per le scuole – «dalla quarta/quinta elementare alle superiori» – a parlare (mostrandola) di disabilità e lo fa semplicemente proponendo dei filmati su sé stesso, sulla sua vita, su com’era prima e come è diventata dopo, lui lì adesso che fa le maratone o scende dalle rapide col rafting, giusto per dimostrare quanto si può comunque fare, pur… disabile.

Ora è presidente della Camponogarese, Pietro Martire, «senza portafoglio» come dice subito

E a chiedergli come mai abbia deciso di dire sì all’invito degli ex dirigenti della società, ecco la sua risposta: «Qui ho giocato, qui mi sono fatto male, qui ho giocato la mia ultima partita. Dopo Dolo, dove pure ho giocato e dove abito, qui per me è stata una seconda casa, tra l’altro con gli stessi colori sociali, bianco e granata. Ci stavo bene qui, un bell’ambiente, presidente era allora Franco Ferrari: società sana, anche i rimborsi puntuali, pur se non giocavo certo per i soldi. Ho pensato a tutto questo quando ho deciso di dire sì, come una storia che gira in tondo e si chiude».

«Quel che vorrei fare è contribuire a portare qui in società un po’ di quello che c’era un tempo, far tornare questo ambiente più familiare possibile. Io so cosa voglia dire l’associazionismo, l’ho vissuto e lo sto vivendo anche con “Oltre il muro”, e presuppone innanzitutto il volontariato, lo scegliere di partecipare, di dare. Qui col calcio è lo stesso, è identico, con persone che decidono di esserci, di mettersi a disposizione. Società che diventa così una famiglia e nello stesso tempo diventa essa stessa una squadra, sì, un’altra squadra fatta di amici ma anche di genitori dirigenti».

E come la mettiamo con l’essere “senza portafoglio”?
«Beh, è vero, di soldi non ne abbiamo, ma intanto possiamo mettere in campo la manovalanza, quella sì. Che so, il genitore idraulico o elettricista: vuoi che non dia una mano se c’è magari da sistemare lo spogliatoio che il figlio frequenta? Sono tornato qui dopo tanti anni e ho trovato tutto uguale a prima, non è cambiato nulla. Ma se ci mettiamo d’impegno, vuoi che non sia possibile cambiare qualcosa? Migliorare? Progetti ne abbiamo, degli spogliatoi nuovi, una nuova entrata, un bar, la stessa illuminazione di un campo in cui ora si vede e non si vede e sono passati come detto gli anni e penso che adesso ci sono i led, si vedrebbe di più e si consumerebbe la metà. Ci vogliono i soldi, è vero, noi non li abbiamo ma deve essere poi così impossibile? Se ci impegniamo e non molliamo, la si trova una strada. Tutti assieme e “pressando” l’amministrazione comunale, sicuro che faremo così».

«Dai primi calci agli esordienti abbiamo una settantina di ragazzini (una sola femmina); non abbiamo i giovanissimi e gli allievi e se contiamo pure juniores e prima squadra, arriviamo a più di cento tesserati».

«La prima squadra cerco di seguirla e la prima trasferta per me è stata dura, vederli lì che pulivano gli scarpini, che si preparavano, come facevo a non pensare com’era per me quel prepararsi. Un discorso quella volta l’ho fatto, ho semplicemente detto loro di uscire dal campo stanchi, per loro stessi e per il bene della squadra. E che quando avranno dei momenti di difficoltà, di pensare a me, sì, io che la mangerei quell’erba. Di non abbassare la testa, di affrontarle insomma le difficoltà. Il calcio mi ha insegnato a stare con gli altri, mi ha insegnato cos’è il sacrificio, la passione, il rispetto dell’avversario, il condividere le sconfitte e le vittorie». 

Sì, siamo tornati al pieghevole d’inizio. Forza e avanti.

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