Valeriano Fiorin: da Arzergrande ai campi di serie A

Cresciuto nel Cesena ed esploso nel Parma, col Genoa di Franco Scoglio ha conosciuto gli anni più esaltanti di una lunga carriera da professionista chiusa poi vicino casa, a Piove di Sacco, e ripresa da allenatore nel mondo dilettantistico veneto. Oggi è alla guida del Cadoneghe in Prima categoria.

Valeriano Fiorin: da Arzergrande ai campi di serie A

«Si, avevo 41 anni quando ho smesso di giocare.
Ricordo che come testa continuavo a sentirmi calciatore, sempre, forse anche perché avevo un po’ paura di finire: cosa avrei potuto fare dopo? Così mi sono venuti buoni quei mesi in cui ho subito iniziato a fare l’allenatore lì a Piove, un modo anche per non “finire”. Ho giocato così tanto anche perché non mi sono mai fatto male male, una volta non era come adesso, un grave infortunio era facile che ti facesse proprio smettere, e a me non è successo. E poi la vita che ho fatto, sempre attento ed è quello che dico sempre anche a loro, ai ragazzi che alleno e ho allenato, conta fino a un certo punto che siamo dilettanti: bisogna starsi attenti, ora lì che fanno tardi e bevono quelle loro robe. Poi le paghi queste cose, un paio d’anni e quanti smettono? Quanti vanno a fare calcetto? Poi li incontro, dicono che fanno giusto un po’ di palestra, che non giocano più, che avevo ragione».

Valeriano Fiorin è nato ad Arzergrande nel settembre del 1966.
Dopo il settore giovanile a Cesena, ha saputo mettere assieme da giocatore ben 17 stagioni da professionista: via via con Parma, Genoa, Palermo, Venezia, Torino, Foggia, Siena e Carrarese. Ha continuato poi con Rovigo e Piovese, passando poi in panca, come “mister”, sempre a livello dilettantistico. È attualmente l’allenatore del Cadoneghe (dove vive), girone E di Prima categoria.

«Però è un bel mondo questo dei dilettanti, a me piace, m’ha pure fatto crescere come persona.
Loro che arrivano, pronti alle sette e mezza di sera, tre volte la settimana, dopo otto-nove-anche dieci ore di lavoro e l’entusiasmo che hanno… È soprattutto il rapporto con loro che cerco sempre di curare, ancora e ancora».

«No, amico no, non posso esserlo. Amico e amicizia sono poi due cose serie, sono parole importanti e se penso ai miei di amici, penso ai quattro-cinque con cui sono cresciuto lì ad Arzergrande, chi fa il camionista, chi l’operaio: sono loro i miei amici, quelli per cui metterei certo la mano sul fuoco e so che non mi brucerei».

«Però credo che i ragazzi sanno che ci sono, che sono lì per loro, che a loro dico sempre quel che penso, credo che “capiscano”, mi pare di sì e lo vedo negli anni quanti sono i ragazzi che vengono anche a confidarsi con me, quelli che poi mi vengono a trovare o mi mandano a salutare. No, non sono e non voglio essere un papà, dico sempre loro che io di figli ne ho due, basta e avanza, ma sanno che io ci sono, a disposizione».

«La cosa più difficile per me è lasciar fuori qualcuno, che in settimana si è pur allenato come gli altri: a uno a uno le scelte le spiego sempre, è faticoso ma così mi sento di fare e non pretendo mica che siano contenti, certo che no, normale che rosichino, l’importante è che mi rispettino, questo sì. Un po’ di rabbia mi fanno quelli che si accontentano, specie se hanno pure delle qualità. Mica parlo della serie A, dai, ma noi che siamo in Prima, perché non pensare alla Promozione, all’Eccellenza, sono belle categorie, potrebbero essere la nostra serie A, no?»

«Per come mi pongo con loro, credo che farei le stesse cose che faccio anche tra i professionisti: come uomo sarei insomma uguale, magari sul lavoro in campo sarei diverso. Negli anni me l’hanno detto in tanti di prendere il patentino, che potrei andare più su ma… ancora lo devo prendere. Forse dentro ho pure un po’ di timore perché non credo che lì sopra potrei essere come sono qui con loro. Questione di carattere, io che anche da calciatore cercavo sempre e comunque di sdrammatizzare, come faccio tuttora adesso. Non so se potrei essere lo stesso, non so e preferisco stare a questo di livello».

«Questi ragazzi di adesso? Sì, tanti sono a posto, ma ce ne sono parecchi di presuntuosi, sia da giocatori che da uomini, che è ancora peggio.
Non voglio entrare nel merito delle famiglie, tutti questi genitori separati, ma nemmeno salutano, non sanno dire grazie: ecco, in questo sì mi sento vecchio».

«Però è pur vero che è il mondo intero ad essere cambiato e io mi ritrovo spesso a pensare a quei miei anni da ragazzo lì ad Arzergrande, specie dai 7 ai 15, quando poi sono andato al Cesena. Periodo quello che per tornarci, pagherei. Non avevamo nulla, io che sono nato proprio in mezzo ai campi, un paio di braghette corte, a torso nudo a correre e saltare per i fossi e lo facevamo per lungo e sai cosa voglio dire. Noi che s’andava a giocare a calcio in patronato anche in ciabatte e mi trovo ragazzi ora di 16-17 anni che la coordinazione non sanno nemmeno cosa sia, chiedo di fare dei movimenti con le braccia e, mamma mia, mi verrebbe da filmarli per mostrare loro quel che fanno, come lo fanno. Alle dita, certo, ecco dove sono coordinati adesso, sempre lì con i telefonini.».

«No, guarda che non sono uno che ripensa a quand’ero calciatore, sono magari i ragazzi che mi chiedono qualcosa.
Io però ho avuto la fortuna di giocare in un periodo davvero di fenomeni. Il Napoli di Maradona, Careca, Alemao; l’Inter dei tedeschi, il Milan degli olandesi… non c’erano Sky e Premium, dovunque giocavi era sempre pieno e ricordo pure l’Appiani, lì quando entravi, quella curva che subito ti aspettava, pareva ti potessero mangiare…».

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