22 ottobre: per cosa si vota, perché votare

Con il costituzionalista Sandro De Nardi entriamo negli aspetti tecnici della procedura che potrebbe aprirsi con il referendum. È la prima volta, infatti, che si attiva la procedura prevista dall’articolo 116 della Costituzione. Un passaggio cruciale, ma va ricordato che anche in caso positivo il Veneto non diventerà comunque una regione autonoma. Né è in discussione in alcun modo l’unità del paese. Per cosa si vota, allora?

22 ottobre: per cosa si vota, perché votare

Il referendum del 22 ottobre è una consultazione consultiva eminentemente politica, che non produrrà alcune effetto giuridico diretto.
È il primo punto da chiarire per approcciarsi in modo corretto all’appuntamento al voto. Ma a cosa serve il referendum, quale autonomia si può sperare, in quali tempi?
Per chiarirlo abbiamo sentito Sandro De Nardi, costituzionalista, professore associato di istituzioni di diritto pubblico presso la scuola di giurisprudenza dell'università di Padova.

«La procedura per richiedere l’autonomia – precisa De Nardi – poteva essere avviata anche senza referendum che, in questo senso, non era obbligatorio celebrare. Attraverso il referendum la regione chiede agli elettori il parere in relazione al quesito stampato sulla scheda, per regolarsi di conseguenza sul piano istituzionale».

«Dal punto di vista strettamente giuridico, l'eventuale esito positivo della consultazione non produrrà alcun effetto concreto per l'effettivo incremento dell'autonomia del Veneto. Altra cosa, invece, è la indubbia valenza politica del pronunciamento popolare, che rafforzerebbe il peso politico delle istanze che il Veneto inoltrerà allo stato centrale. Infine, affinché il referendum sia valido occorrerà che si rechi alle urne la metà più uno degli aventi diritto al voto: dunque il 22 ottobre sarà, anzitutto, una giornata da battiquorum! Se si raggiungerà tale soglia di partecipazione, la proposta sarà considerata approvata se i sì supereranno i no».

Quale autonomia

La possibilità di chiedere una maggiore autonomia è stata introdotta in Costituzione nel 2001, dall'allora maggioranza politica di centrosinistra, con la cosiddetta Riforma del Titolo V.
«In concreto – spiega De Nardi – il terzo comma dell'art. 116 della Costituzione consente che alle regioni ordinarie come il Veneto possano essere riconosciute "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia", cioè ottenere dallo stato un ampliamento della loro autonomia decisionale in una molteplicità di settori, (istruzione, tutela e sicurezza del lavoro, professioni, tutela della salute, alimentazione, tutela dell'ambiente e dei beni culturali, previdenza complementare, governo del territorio, protezione civile ecc.). Sul punto va fatta però chiarezza, anzitutto precisando che il Veneto, seguendo l'iter in questione, non diventerebbe comunque una regione a statuto speciale come, ad esempio, il Trentino-Alto Adige o la Sicilia (per questo servirebbe infatti una revisione costituzionale). Il percorso in questione nulla ha, poi, a che vedere con ipotesi di secessione della nostra regione dal resto del paese: dunque – raccomanda De Nardi – per carità di patria, si evitino paralleli con quanto sta accadendo in Spagna (ove la Catalogna vorrebbe staccarsi dal resto della nazione)». 

L'unità e l'indivisibilità della Repubblica italiana non sono, dunque, messe in discussione.
«Peraltro va rilevato che fino ad ora nella nostra repubblica nessuna regione ordinaria ha ottenuto ampliamenti della propria autonomia. In passato vi sono stati dei timidi tentativi volti ad avviare la complessa procedura in questione, ma tutti sono naufragati per ragioni politiche. Questo dimostra che non basta scrivere in Costituzione qualcosa di fortemente innovativo se poi non matura la volontà politica di sfruttare sino in fondo le novità introdotte, passando dalle parole ai fatti, agli atti e alle condotte istituzionali conseguenti».

La procedura? Una corsa a ostacoli

«Anzitutto – spiega il costituzionalista – serve un’apposita richiesta della regione al governo di avviare una trattativa per ampliare la propria autonomia».
Una volta raggiunta un'intesa tra regione e governo, «bisognerà sentire gli enti locali veneti (comuni, province e città metropolitana di Venezia, enti che peraltro potrebbero essere coinvolti già a monte, e cioè durante la trattativa con il governo)». Ma non è finita qui, occorre, infatti che l'intesa sia «recepita dal parlamento in una apposita legge. Il 50 per cento più uno dei deputati e dei senatori dovrà dunque votare a favore del riconoscimento al Veneto di una maggiore autonomia. Come si vede è un’autentica corsa a ostacoli quella che bisognerà intraprendere dal 23 ottobre prossimo, in caso di esito positivo» del referendum. 
«Occorre essere ben consapevoli del fatto – commenta il docente dell’ateneo patavino, con molto realismo – che non è detto che nella trattativa con il governo e in sede parlamentare trovi applicazione la nota espressione evangelica "chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto"». 
Per quanto concerne poi i tempi nulla è definito.
«È tuttavia ragionevole prevedere che i tempi non saranno brevi: la partita da giocare è difficilissima, ed è molto probabile che la burocrazia ministeriale si metterà di traverso».

La dotazione di risorse

La maggiore autonomia dovrebbe portare con sé anche un aumento di risorse per il Veneto.
Su tale punto però «l'art. 116 si limita a richiedere il rispetto dei "principi" di cui all'art. 119 della Costituzione, vale dire la previsione che disciplina l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni. Constato – chiosa De Nardi – che nel dibattito pubblico di queste settimane fioriscono come funghi i tuttologi che sparano cifre (la cui attendibilità scientifica è tutta da verificare) probabilmente per impressionare la gente, per solleticarne la pancia con semplificazioni e banalizzazioni. Ho l'impressione che da più parti si voglia veicolare la tesi che l'eventuale incremento dell'autonomia secondo quanto previsto dall’art. 116 della Costituzione, porterebbe automaticamente e necessariamente con sé una consistente riduzione del cosiddetto residuo fiscale (ovvero i soldi delle tasse pagate sul territorio che vengono spesi in altre zone d'Italia) che attualmente interessa regioni ricche come il Veneto o Lombardia; sennonché mi pare che tale ultima tesi sia stata sostanzialmente smentita, cifre alla mano, da uno studio recentemente elaborato in argomento da un illustre studioso dell'università di Padova, il prof. Luciano Greco: la cui serietà e autorevolezza scientifica sono unanimemente riconosciute».

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