«Con la riforma costituzionale, parlamento a rischio emarginazione»

Per Gian Candido De Martin, emerito di diritto pubblico, quella che finora è stata una formula di governo parlamentare, si trasformerebbe in un premierato assoluto. E con molti poteri sottratti alle regioni. Ma il giudizio complessivo è favorevole.

«Con la riforma costituzionale, parlamento a rischio emarginazione»

Gian Candido De Martin osserva con favore, ma con qualche riserva tecnica, la riforma costituzionale in via di definizione in Parlamento. Bene il superamento del bicameralismo perfetto, ma attenzione ai rischi legati alla rimozione di alcuni contrappesi istituzionali, mette in guardia il professore emerito di diritto pubblico alla Luiss di Roma. 

La riforma costituzionale, che archivia di fatto la cornice istituzionale della prima e seconda repubblica, è tutto sommato positiva? 

«Superare il bicameralismo paritario è senza dubbio un passo in avanti per la modernizzazione delle nostre istituzioni. Diciamo che può essere la parte della riforma condivisibile da tutti gli schieramenti. Nondimeno ci sono punti da valutare, come per esempio la scelta di quali politici locali faranno parte del nuovo Senato». 

I dubbi principali? 

«La riforma attribuisce di fatto un notevole rafforzamento dell’esecutivo. È una formula molto netta e inedita nel nostro paese. Non è una modifica in sé negativa ma apre comunque interrogativi sulla forza dei contrappesi istituzionali nel nuovo sistema. Il Parlamento risulta “emarginato” nel nuovo sistema». 

Con la riforma si valuterà anche l’introduzione dell’Italicum. 

«L’impronta fortemente maggioritaria della nuova legge elettorale è un ulteriore elemento che va ad impattare sulla composizione della Camera dei deputati e più in generale sul sistema delle forze istituzionali all’interno dell’ordinamento». 

Molti prevedono inoltre un incremento dei procedimenti riguardanti i conflitti di competenza tra stato e regioni.

«Come nella riforma del titolo V del 2001 c’è il rischio di aumentare i conflitti di ripartizione delle competenze tra i poteri dello stato. È pur vero che viene abolita la potestà concorrente ma i problemi potrebbero sorgere da “altre parti”. Alcuni parlano di un ritorno ad un neo-centralismo: in effetti lo stato potrebbe in futuro intervenire quasi su tutto invocando la “clausola di supremazia”. Si introduce comunque rispetto al 2001 una limitazione inedita alla potestà delle regioni».

Lei, controcorrente, è critico sull’eliminazione delle province. 

«In questo quadro in cui le regioni perdono potere legislativo e aumentano quello amministrativo come verranno gestite le vecchie competenze delle province?». 

Verrà modificato realmente il quadro fondamentale dell’equilibrio dei poteri?

«Il rafforzamento dell’esecutivo sarà netto, i rischi degli effetti di un eventuale disequilibrio dei poteri sono tuttavia tutti da valutare. La nostra finora è stata una formula di governo parlamentare e si passerà in sostanza ad un premierato assoluto». 

Le disuguaglianze tra regioni, “speciali” e non, verranno in parte assorbite? 

«Questo è un punto dolente: la questione delle regioni a statuto speciale è stata tenuta fuori, rinviata a una futura revisione degli statuti “privilegiati”. C’è una lobby molto forte in Parlamento a favore delle regioni a statuto speciale, che di fatto hanno un potere di veto su eventuali riforme. Si perpetua una “specialità” finanziaria malintesa che penalizza tutte le altre regioni». 

La riforma va nell’ottica della semplificazione istituzionale? 

«Sicuramente con il superamento del bicameralismo perfetto si dovrebbero accelerare i tempi decisionali del Parlamento. Sono molto dubbioso, come detto, sull’eliminazione delle province, visto che il nostro è un sistema fatto di una miriade di piccoli comuni che necessitano di servizi che non riescono a svolgere in proprio. E abolire le province non significa abolire d’un tratto le funzioni intermedie che esse svolgevano». 

Trova significativo che un parlamento, eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla Consulta, abbia di fatto scritto la più grande trasformazione istituzionale dalla nascita della repubblica? 

«No, nel modo più assoluto. Esiste un principio di continuità, sancito anche da statuizioni dell’alta corte, dell’esercizio delle funzioni da parte del parlamento che lo abilita pienamente ad esercitare anche le sue prerogative costituzionali».

Cosa cambia con la riforma 

Qualora il prossimo 11 aprile la riforma costituzionale in seconda lettura non dovesse raggiungere la maggioranza dei due terzi dei componenti della Camera (eventualità assai probabile), sulla riforma costituzionale si aprirà la fase referendaria. Monitorata nei diversi passaggi parlamentari dal ministro Maria Elena Boschi il via libera non dovrebbe riservare comunque particolari sorprese. 

Di fatto la riforma chiuderà la stagione del bicameralismo perfetto, con la “nuova” Camera dei deputati investita del potere di concedere o revocare la fiducia al governo (l’attuale sistema prevede invece, come noto, anche in capo ai senatori il potere di fiducia). 

Cambia anche il titolo V, con le modifiche delle materie oggetto di ripartizione delle competenze legislative, alcune sono ritornate allo stato. Nella nuova versione non avranno invece “dignità” costituzionale le province. 

Dal punto di vista legislativo gran parte delle competenze, e dei relativi oneri burocratici, per l’approvazione delle leggi sarà demandata alla Camera, fatte salve le “riserve” per questioni di rango costituzionale attribuite anche nel nuovo assetto al Senato. 

Proprio quest’ultima è l’istituzione più coinvolta nella riforma: i senatori non saranno più 315 ma 100, 95 eletti dai consigli regionali e cinque nominati dal presidente della repubblica (senatori a vita gli ex presidenti della Repubblica).

Cambierà anche l’elezione del capo dello stato: serviranno i due terzi dei parlamentari nei primi tre scrutini e i tre quinti dal quarto scrutinio. Dal settimo si passa a un quorum dei tre quinti dei presenti in aula. 

Per presentare invece una proposta di legge popolare serviranno 150 mila firme, contro le attuali 50 mila, ma saranno più immediati i tempi per l’esame. Modificata anche la soglia per il referendum abrogativo: non più 500 mila bensì 800 mila firme con il quorum fissato al 51 per cento dei votanti delle ultime politiche. 

La riforma costituzionale prevede l’abrogazione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro: più che un organo consultivo è stato un “poltronificio” dorato.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Parole chiave: de martin (1), riforma costituzionale (4), referendum (60), renzi (141), senato (19)