Gad Lerner: «Serve un filtro, non un tappo alle migrazioni»

Il giornalista di origini libano-israeliane, in Italia da quando aveva tre anni, è stato ospite al Festival della lentezza a Ponte San Nicolò. Ecco l'intervista che ha rilasciato alla Difesa del popolo.

Gad Lerner: «Serve un filtro, non un tappo alle migrazioni»

«Vivo in Italia da quando avevo tre anni ma ho ricevuto la cittadinanza a 30, per matrimonio. Lo stesso stato che mi aveva chiamato alla visita di leva e al quale pagavo le tasse a lungo non mi ha riconosciuto come cittadino».

Per Gad Lerner, nato nel 1954 in Libano da genitori israeliani, identità e cittadinanza non sono questioni astratte ma sono parte di un vissuto personale: anche per questo lo scorso 7 ottobre il giornalista è stato chiamato a tenere una lectio magistralis sul tema “Frontiere e confini nel XXI secolo”, nell’ambito del Festival della lentezza presso la sala civica Unione Europea di Ponte San Nicolò.

E di confini si occuperà anche la sua trasmissione “Ricchi e poveri”: una serie di sei reportages sul tema delle disuguaglianze nel mondo, in onda su Rai Tre a partire dal 12 novembre.

«Vengo direttamente dalle riprese in Kenya, dove ho visitato la discarica che occupa ormai metà Nairobi – spiega alla Difesa il giornalista – prima ancora sono stato al confine tra Messico e Stati Uniti e in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa: oggi ha 200 milioni di abitanti, ma nel 2050 potrebbe superare l’intera Unione Europea».

E che idea si è fatto?
«Da tempo ormai le frontiere non bloccano più capitali e merci, e da questo dipende il nostro attuale sviluppo economico e la nostra prosperità. Per le persone invece la libertà di muoversi è ancora molto limitata, ma questa situazione non può durare ancora a lungo».

Perché?

«Basta girare un po’ per rendersene conto: anche nei luoghi più remoti ci sono parabole e telefonini. Il sogno occidentale non è più solo una favola udita da lontano; è ricchezza sbattuta in faccia e accompagnata da messaggio: stop, qui non si può venire».

Il problema quindi sta nelle disuguaglianze?
«Faccio un esempio: sono appena stato a Ciudad Juárez in Messico, una delle città più violente al mondo, praticamente attaccata a El Paso, Texas. Davanti al muro che le separa nel 2016 papa Francesco fece un discorso fortissimo, dicendo basta a morte e sfruttamento. Qui sorgono enormi fabbriche di assemblaggio in cui i messicani lavorano per le multinazionali a un decimo del salario dei loro vicini statunitensi. È una questione di sproporzione e di contiguità: chiediamoci quanto a lungo un muro potrà separare livelli retributivi così distanti per lavori simili».

Aprendo però le frontiere non si rischia l’invasione? Guardiamo a quello che succede nel Mediterraneo…
«Non credo affatto che l’intero sud del mondo si riverserebbe in Italia, piuttosto bisogna affrontare alla radice i problemi dello sviluppo del continente africano. Ne indico in particolare due: innanzitutto la natalità esasperata – oltre 5 figli per donna in Nigeria, più di 7 in Niger – che si risolve con un grande processo di acculturazione, mandando e tenendo le donne a scuola e all’università, come riconoscono tutti i demografi».

Il secondo problema è la corruzione...
«Molti paesi africani stanno crescendo economicamente, ma finché i soldi andranno in tasca ai corrotti e i grattacieli e le piscine delle nuove classi medie avranno a fianco le baraccopoli e gli slums, le persone continueranno ad andarsene».

Le frontiere possono essere anche luoghi d’incontro?

«A patto che siano il più aperte e porose possibili, e non solo per i ricchi: per questo dobbiamo istituzionalizzare e regolamentare gli arrivi, anche per prevenire criminalità e terrorismo. Mettere un filtro invece di un tappo. Quello che non è possibile è pensare di riuscire a bloccare l’immigrazione attraverso leggi restrittive come la Bossi-Fini».

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