Come è cambiato il clero nella diocesi di Padova dopo il concilio di Trento

«Un quadro vivissimo, articolato, problematico, di una realtà sociale ed ecclesiale in pieno divenire, colta in una stagione fondamentale della sua storia». Così descrive il doppio volume di don Stefano Dal Santo Il clero nella diocesi di Padova attraverso le visite pastorali post-tridentine (1563-1594) (Istituto per la storia ecclesiastica padovana, pp 1145, euro 75,00) la giuria del premio Brunacci per un libro sulla storia del Padovano.

Come è cambiato il clero nella diocesi di Padova dopo il concilio di Trento

Il primo posto nel prestigioso concorso monselicense è andato alla decennale fatica del direttore dell’Archivio storico diocesano e della Biblioteca capitolare, nonché docente di storia della chiesa nella Facoltà teologica del Triveneto e segretario dell’Istituto per la storia ecclesiastica padovana, che ha proseguito la ricerca iniziata nella dissertazione dottorale tenuta alla Pontificia università Gregoriana di Roma.

La ricerca sarà presentata lunedì 18 dicembre alle ore 17 nel teatro del seminario vescovile, aula magna della Facoltà teologica del Triveneto, con la partecipazione dei docenti di storia della chiesa Luigi Mezzadri dell’università Gregoriana e Liliana Billanovich dell’ateneo di Padova. Modera padre Luciano Bertazzo, preside dell’Istituto teologico Sant’Antonio dottore di Padova.

Il primo tomo, dedicato all’analisi storica, è suddiviso in otto capitoli, iniziando dalla situazione della diocesi di Padova, dei suoi vescovi, dei visitatori e dei sinodi nel trentennio preso in esame. 31 anni iniziati con la fine del concilio di Trento, che per Padova coincide con la visita pastorale intrapresa dal domenicano Girolamo Vielmi, suffraganeo del cardinale Francesco Pisani, e che si concludono con il breve episcopato di Alvise Corner «dopo il quale, il trentennale episcopato di Marco II Corner rappresenta senza dubbio un capitolo a sé, almeno in quanto a estensione».
Si passa quindi a esaminare le visite pastorali e la loro documentazione, la provenienza del clero e le nomine agli uffici diocesani. A questo punto lo studio entra nel vivo delle questioni affrontate dal concilio di Trento: la residenza dei sacerdoti, la loro preparazione pastorale e culturale, l’attività pastorale svolta e la loro condotta morale.
Il secondo tomo allega 92 documenti e 60 tabelle, oltre alla bibliografia delle fonti edite e inedite.

Come il concilio trasformò la chiesa padovana

In che modo il concilio di Trento trasformò il volto della chiesa? Una domanda che esige una risposta complessa. Parte di questa risposta è contenuta nella ricerca di don Stefano Dal Santo che ha studiato, anche utilizzando un database per la lettura e la gestione di migliaia di dati, lo stato e le trasformazioni verificatesi nel clero presente nella diocesi di Padova nei trent’anni successivi al concilio. Si tratta della prima opera organica rivolta con criteri moderni a questo periodo, la seconda metà del Cinquecento per la diocesi patavina. Il suo predecessore, mons. Pierantonio Gios, si è dedicato soprattutto al Quattrocento o ad alcuni specifici segmenti del Seicento.

«Il concilio di Trento – spiega don Dal Santo – è importante non solo per chiarire la dottrina cattolica in riferimento alle posizioni dei protestanti, ma perché si propone di riformare la vita della chiesa sul versante pastorale. Pastorale che conosceva molti abusi e che già prima di Trento, vescovi, sacerdoti, religiosi, laici sentivano la necessità di rinnovare. Il concilio opera in questa direzione non solo inventando cose nuove, ma cercando di applicare in maniera rigorosa, con l’arma del “disciplinamento”, i principi di una pastorale rinnovata. C’è poco di nuovo, ma è nuovo il rigore con cui viene applicato».

1563: il nuovo stile di Girolamo Vielmi

Padova aveva già avuto a cavallo tra Quattro e Cinquecento la grande figura del vescovo Pietro Barozzi che visitò la diocesi in modo accurato e intervenendo in modo inflessibile su alcuni abusi e irregolarità, ma dopo c’è stato un periodo in cui i controllo vengono effettuati in forma più blanda. Girolamo Vielmi nel 1563 è il primo nelle cui visite pastorali si avverte chiaramente lo sforzo di compiere un lavoro di analisi, di indagine e d’intervento più rigoroso rispetto a quello che si era visto nei decenni precedenti, proprio sforzandosi di applicare le indicazioni tridentine.
I verbali di trent’anni di visite permettono di “fotografare” la situazione diocesana e il suo divenire; incrociando questi dati con  le decisioni delle autorità centrali diocesane e con altri esterni, come quelli della visita apostolica compiuta nel 1583-84 alla diocesi di Padova dal cardinale veronese Agostino Valier, si dà conto degli interventi dei vescovi per “disciplinare” questa realtà.

«Bisogna però tener conto – spiega Dal Santo – che quella offerta dalle visite è una fotografia imprescindibile, ma non del tutto attendibile: si deve tener conto dei limiti del visitatore, che non vedeva tutto e a cui non veniva fatto vedere tutto. Esisteva una sorta di connivenza, di tacito accordo tra il parroco e i suoi fedeli che pur venivano interrogati separatamente. Se il parroco aveva qualcosa da nascondere “comprava” il silenzio dei suoi fedeli non denunciando le loro irregolarità, le assenze dalle comunioni pasquali, le convivenze, i comportamenti censurabili. Spesso poi certe informazioni venivano verbalizzate nel brogliaccio preparatorio ma non erano riportate nella bella copia. Per decifrare questa fonte fondamentali occorre un grimaldello storico acuto, tenendo conto del succedersi di diverse figure alla testa della diocesi e dei loro metodi».

I preti non residenti passarono dal 70 al 3,5 per cento

Nella lettura dei fatti è venuto in aiuto il dato numerico, ottenuto rendendo confrontabili i diversi documenti. «Un dato importante quantificato – precisa ancora lo storico – è che nei primi anni dopo il concilio di Trento il 70 per cento dei parroci risultano non residenti, non erano presenti in parrocchia o non vi svolgevano il ministero sacerdotale. Alla fine del trentennio i non residenti sono precipitati al 3,5 per cento. Ma cosa c’era dietro al fenomeno della non residenza che la chiesa dopo Trento cercò di combattere accanitamente? Bisogna considerare che a quel tempo non si diventava preti per scelta di vita, ma per svolgere un lavoro. Se quindi il beneficio ecclesiastico della parrocchia garantiva di vivere bene pagando un sostituto, non c’era alcun motivo per non farlo, vivendo di rendita. D’altra parte era la stessa cosa che facevano i vescovi... Ovviamente i sostituti dei parroci titolari erano sacerdoti che, per molteplici ragioni, non erano riusciti ad avere una loro parrocchia; spesso non avevano le carte in regola, dal punto di vista della preparazione o della moralità. Ecco perché si trovano a Padova, come in tutta l’Italia centro-settentrionale, tanti sacerdoti forestieri che giungevano da altre diocesi con in mano solo la lettera d’ordinazione, preziosissima. Al parroco non interessava il valore del sostituto, anzi, meno valeva meno lo pagava».

A quel tempo non c’era poi alcun vaglio dei requisiti necessari per diventare prete, bastava conoscere le formule sacramentali, (e talvolta le visite mostrano carenze anche in quelle), bastava conoscere almeno l’abbici della fede, bastava dimostrare di saper sillabare un po’ di latino (ma molti preti non lo sapevano fare) e si veniva ordinati. A queste persone che concepiscono il sacerdozio come un lavoro è difficile chiedere il celibato: non ci si sposa ufficialmente, ma la convivenza con una donna, presentata come domestica, è molto diffusa.

Un buon parroco? Accorre al letto dei moribondi

I fedeli poi, oltre al mutuo silenzio di cui si è detto, non denunciavano i loro parroci perché avevano una visione molto pragmatica del servizio sacerdotale: se il prete faceva il suo dovere, la vita morale che conduceva era affar suo. E questo dovere si misurava sul dir messa la domenica, ma soprattutto su una cosa fondamentale: la pastorale dei moribondi. Quando un parroco era pronto ad accorrere al capezzale di un morente con qualsiasi tempo, in qualsiasi stagione e a qualsiasi ora del giorno o della notte per amministrargli i sacramenti ultimi, la penitenza, l’estrema unzione e il viatico, era un bravo parroco. Perché i fedeli avevano un’altissima sensibilità nei confronti della vita eterna: in un’età in cui la vita su questa terra era precaria, durava poco, era segnata da stenti, sofferenze, rischi continui, guerre e pestilenze, la fede nell’aldilà, dove si andava a stare bene, non era un aspetto secondario. E per ottenere la vita eterna bisognava avere i sacramenti prescritti dalla chiesa, ecco perché non si perdonava a un sacerdote di rubare la speranza nell’eternità.
Il vescovo Federico Corner trovò ad Arsié un parroco che da 25 anni conviveva con la “domestica” facendo una nidiata di figli; ma quando chiede ai fedeli se non se ne sono accorti, quelli rispondono: «Ma che volete che facciamo questione? Quando abbiamo la messa ci basta». E qualcun altro dice: «È pur meglio che si tenga quella, piuttosto che vada con le altre». Ecco, questo è il secondo caso in cui scatta la denuncia dei parrocchiani, non quando il parroco vive con la sua donna, ma quando insidia quelle degli altri, diventa adultero.
Ma come si riesce a debellare il fenomeno della non residenza?

«Dipende dal fatto – risponde don Dal Santo – che le visite si fanno più frequenti, le pene più certe e soprattutto perché nel 1572 nascono i vicari foranei che riuniscono periodicamente le congreghe e hanno il compito di sorvegliare i parroci del proprio territorio, con visite molto più frequenti e improvvise di quanto non può fare l’autorità diocesana».

A Padova operarono due collaboratori di san Carlo Borromeo

Rispetto alla situazione generale, Padova come si colloca nell’attuazione del concilio? «A Padova – sottolinea il docente di storia della chiesa – abbiamo avuto delle figure di primo piano. Il Vielmi, domenicano, è stato uno zelante riformatore, ma soprattutto Nicolò Ormaneto, che è vescovo dal 1570 al 1577, e poi Nicolò Galiero, collaboratore dello stesso Ormaneto e dei due Corner. Sono stati entrambi strettissimi collaboratori di Carlo Borromeo a Milano, che è il campione della riforma cattolica. I suoi atti sono il manuale di riferimento pastorale della chiesa post-tridentina. L’Ormaneto poi era stato anche collaboratore a Verona di Gian Matteo Giberti, il vescovo che portò avanti le istanze di rinnovamento pastorale prima ancora del concilio di Trento. La congregazione dei parroci attorno al vicario foraneo è prassi che nasce a Verona, come il confessionale come mobile liturgico per la celebrazione del sacramento della penitenza. E anche l’idea di collocare il tabernacolo con l’eucaristia al centro dell’altare principale è ispirata da Giberti; Ormaneto porta queste idee a Milano dove diventano, con la legislazione varata da Borromeo, alcuni dei connotati fondamentali della chiesa conciliare».

Un racconto "sciolto e avvicente"

Lo studio di don Stefano Dal Santo ricostruisce con pazienza, dati alla mano, l’evolversi della figura del prete dopo il concilio tridentino; una trattazione svolta con passione e partecipazione. Una passione che si traduce anche nella piacevolezza del dettato, in una lingua «sciolta e avvincente», affinata dai tanti anni di insegnamento, che anche la motivazione della giuria del premio Brunacci ha messo nel giusto rilievo.

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