Misericordia et misera: «Un invito a guardare in faccia anche il negativo che è in noi»

La teologa Stella Morra riflette a partire dalla Lettera apostolica di papa Francesco Misericordia et misera su cosa attende la Chiesa concluso il Giubileo. «Occorre ristabilire prassi penitenziali cioè luoghi, persone, sensibilità, linguaggi in grado di assumere il negativo delle persone, di accompagnarlo e di far fare esperienza di benedizione».

Misericordia et misera: «Un invito a guardare in faccia anche il negativo che è in noi»

Gesù e l’adultera è l’icona scelta da papa Francesco per la sua lettera apostolica Misericordia et misera pubblicata a conclusione del Giubileo straordinario della misericordia.
Partiamo da lì per approfondirne il messaggio con l’aiuto della teologa Stella Morra (docente di teologia fondamentale all’Università Gregoriana di Roma, nonché autrice del libro Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale, EDB 2015) che raggiungiamo al telefono.

«Nella lettera apostolica l’icona viene utilizzata come chiave delle due parole che sono anche il titolo della lettera e che sant’Agostino usa nel suo commento al brano evangelico Misericordia et misera. Rimangono solo loro due: la misera e la misericordia, per dire questa dimensione che ha attraversato tutto il Giubileo e che è lo sguardo nuovo sull'aspetto negativo della nostra esistenza rappresentato non solo dal peccato, non solo dalla dimensione negativa in senso morale (lo è anche), ma anche da tutta la realtà dell’essere bisognoso della nostra esistenza. Uno dei temi che possono portare futuro e che non finiscono con il Giubileo è questo invito sotteso a riprendere in considerazione il negativo dell’esistenza, a guardarlo in faccia. La cosa meravigliosa in questa icona è che siamo invitati a fare questo non a partire dal negativo stesso, ma a partire dalla misericordia. È lo stile conciliare: non si nega che i problemi esistano, ma contemporaneamente li si guarda a partire dal punto di vista della possibilità di una benedizione che il negativo è».

È questa la conversione pastorale a cui invita papa Francesco nella lettera apostolica?
«Certo! È l’altro capo della parabola del discorso iniziale del Concilio di Giovanni XXIII quando dice “Non possiamo che dissentire dai profeti di sventura” che considerano il negativo l’orizzonte interpretativo. Cinquant’anni dopo il Concilio veniamo reinvitati a non essere profeti di sventura e si aggiunge un altro aspetto: accanto al non essere profeti di sventura, non dobbiamo nemmeno rimuovere il male, perché non ci sia un illuderci di un’onnipotenza che è la tentazione successiva al Concilio».

Colpisce nella lettera l’insistenza con cui il papa sottolinea la forza della misericordia. C’è in lui la preoccupazione che finito il Giubileo questo sia considerata una parentesi?
«Il rischio in effetti è considerare la misericordia un tema tra gli altri e questa è una preoccupazione che Bergoglio ha forte. Invece l’invito è: “Guardate che questa è la chiave di lettura che deve permanere”. La misericordia è l’orizzonte da cui il negativo può essere assunto, ma bilanciato come un luogo di un’esperienza di benedizione personale e comune che costruisce il futuro. In questo non c’è nessun falso ottimismo (come qualcuno ha accusato). C’è un gran realismo, una capacità di vedere la fragilità e i limiti, ma con la consapevolezza che la buona notizia cristiana è che l’assunzione di un limite non ti inchioda lì a vita e ti offre la possibilità di farne un luogo di benedizione».

Nel testo emerge che la misericordia è più forte di ogni limite e di ogni peccato, anche del peccato di aborto. Ci spiega questa indicazione?
«Il forte realismo non è solo nell’interpretazione dell’icona, ma anche nella gestione delle cose e non si fa, anche in questo caso, nessun ragionamento astratto, né nessun cambiamento della dottrina. Non si dice “Non è grave, è una cosa da niente”. No, ma si dà uno strumento per rendere più facile l’esperienza di misericordia. Questa, peraltro, non è un colpo di spugna, è un’assunzione del male, usando un termine tecnico potremmo dire che “transustanzia” il male, non lo cancella, non lo rende come se noi non avessimo quella storia. Gesù risorto, quando appare nei racconti evangelici ha ancora le piaghe tanto che Tommaso le può toccare, ma non fanno più male».

«La misericordia compie questa operazione sul nostro male: non ce lo fa rimuovere, né lo cancella, ce lo fa riconoscere come un pezzo della nostra storia, ma non fa più male. Non è un male che produce un altro male, ma produce un luogo di benedizione. Questo mi sembra molto bello perché coniuga realismo e rispetto per la vita delle persone (anche per le loro scelte sbagliate) che non sono inchiodate al nostro male. Questo è fatto con qualcosa di molto semplice, come l’allargamento, per esempio, della facoltà che hanno tutti i preti di assolvere il peccato di aborto. È una cosa apparentemente giuridica, ma che in realtà ha dietro l’idea di dire che non bisogna mettere difficoltà alla vita della gente per accedere alla misericordia di Dio».

Il papa dà anche indicazioni pratiche relative anche al sacramento della riconciliazione, che va riscoperto. Come può avvenire?
«Io credo che il problema non sia sul desiderio delle persone di ritrovare strade di misericordia, ma sulle prassi delle chiese. Noi, per esempio, non abbiamo più una prassi penitenziale. Abbiamo ridotto l’atto della riconciliazione quasi a un atto giuridico, totalmente individuale, che non ha nessuna storia. Il problema è questo: ristabilire prassi penitenziali nelle chiese, cioè luoghi, persone, sensibilità, linguaggi in grado di assumere il negativo delle persone, di accompagnarle e di far fare questa esperienza di benedizione».

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