Tra i banchi si scrive la pace

Sono oltre 400 le persone straniere che ogni anno imparano l'italiano grazie ai corsi del Vides Veneto, ma non solo. Fanno esperienza di condivisione e creano relazioni tra loro e i cento volontari che gestiscono, oltre alla scuola, i laboratori teatrali e quelli di taglio e cucito. Perché la socialità fa crescere la pace.

Tra i banchi si scrive la pace

Sotto il banco c’è un bambino con la pelle color cioccolato. Avrà un anno appena e si diverte a tirare, come un gattino dispettoso, il metro da sarta con cui la mamma cerca di misurare la stoffa. Alla macchina da cucire un ventenne, con occhi neri profondi, è concentrato sul crinale che l’ago deve seguire, bello dritto, per cucire due lembi di quella che sarà una borsa.

Si respira fermento, concentrazione, ma anche tanta spensieratezza nella stanza dell’istituto Don Bosco di via Orsini a Padova, dove l’associazione Vides ha la sua base operativa per insegnare agli stranieri italiano, alfabetizzandoli in molti casi, ma anche per condividere la passione per teatro, musica, taglio e cucito. L’idea è evangelica nella sua semplicità: condividere, conoscersi, essere comunità perché

«insieme si possono fare esperienze di fraternità, di aiuto vicendevole»

come spiega con convinzione suor Anna Maria Zabai, delegata regionale del Vides. E non sentirsi più soli a migliaia di chilometri da casa, lontani da tutto e da tutti.

E possiede le sfumature del dono la scuola d’italiano per Alessandra Zuin, coordinatrice dal 2012. Dopo dieci anni di volontariato con gli alcolisti anonimi, nel 2006 ha scelto di offrire gratuitamente all’associazione quello che sa, soprattutto sulle culture orientali, dopo aver insegnato a Damasco e ad Aleppo in Siria e all’università di Napoli. La sua è una vera passione per la scrittura e la cultura che l’ha spinta a realizzare recentemente anche uno studio su Gregorio Barbarigo e le lingue orientali. «L’incontro con altri popoli e altri modi di pensare – racconta – ti fa stare con i piedi per terra. Siamo talmente abituati a vedere le cose solo con il filtro della tv che non pensiamo mai che possano esistere veramente».

Ma cosa alimenta il servizio gratuito di un centinaio di volontari, di cui ben oltre la metà sono sono studenti universitari, un 10 per cento ragazzi in alternanza scuola lavoro e il resto anziani in pensione? La risposta di Maria Grazia Rassu, che insegna italiano da due anni e che è arrivata al Vides per caso, girovagando un giorno nel web, è illuminante come un faro. «Non mi bastava dare il pane ai poveri perché, a lungo andare, il pane umilia e la persona umiliata, chi dipende sempre dall’altro, rischia di provare rancore, odio, rivalsa sociale. Ho, dunque, maturato in me la convinzione che dovessi fare qualcosa per aiutare i poveri a camminare con le proprie gambe e così sono entrata a far parte del Vides. Quando non sai la lingua del paese in cui ti trovi, vivi come un sordomuto: gli altri parlano, ma tu non comprendi, ti senti tagliato fuori e non ti fidi di nessuno».

L’apprendimento dell’italiano diventa perciò un ponte tra culture e un nodo tra le persone che a fatica si scioglie perché «parlando la stessa lingua ci si pone sullo stesso piano». Maria Grazia Rassu ha scolpito in testa il lamento funebre delle madri sarde che salutavano i figli partire per l’Australia. Sapevano che non li avrebbero più rivisti. Il viaggio all’epoca costava una follia e, una volta salpati, quei ragazzi non si sarebbero più voltati indietro. «Ero una bambina e, come tutti gli abitanti di Siligo, piccolo paese in provincia di Sassari, accompagnavo i ragazzi alla fermata del pullman verso il porto dove si sarebbero imbarcati per “nuovi mondi”. Le madri coperte di nero portavano le valigie sulla testa, piangevano ed elevavano lamenti, quasi presagi di morte. Tutti le seguivano formando come un corteo funebre. Questa è la migrazione che mi porto dentro e che credo non sia così diversa rispetto a quella che vivono le madri e i ragazzi a cui insegno italiano».
Chi mai, trent’anni fa, avrebbe potuto prevedere che la migrazione di popoli avrebbe assunto dimensioni così ampie, tanto da diventare un fenomeno strutturale della nostra società? Il Vides, già negli anni Novanta, ha saputo mettersi in ascolto delle esigenze di chi arrivava nel nostro paese e seguendo con slancio le parole di don Bosco – «Basta che siate giovani perché vi ami assai» – ha iniziato ad aprire le porte a chi era solo, senza punti di riferimento. «Il modo migliore per garantire la sicurezza, è costruire la pace tra i popoli» è la convinzione profonda che alimenta le giornate di suor Anna Maria Zabai, delegata regionale del Vides, e che trova ragion d’essere nella positività delle relazioni e nelle amicizie che nascono alla scuola d’italiano, tra ago e filo, tra canti e recitazioni. «Come religiosa, questa è per me una chiamata a vivere il carisma salesiano con il cuore che spazia nel mondo fatto di tante storie. Vorrei essere per questi ragazzi il riflesso dell’amore di Dio per ciascuno di loro. Vorrei farli sentire accolti come figli, fratelli, sorelle, madri… e che sentano il Vides come casa loro».
Tra chi un tempo è stato accolto tra i banchi di riviera San Benedetto, c’è anche chi ora ha deciso di ricambiare diventando a sua volta volontaria per restituire con gratitudine quanto ha ricevuto. Margarita Salgado viene dal Perù e, quando 13 anni fa arrivò a Padova sola e disorientata, con in tasca poche parole d’italiano, non avrebbe pensato che la sua vita andasse in questa direzione. «Una domenica camminavo lungo riviera Paleocapa triste e senza riferimenti. Volevo andare a messa, ma non sapevo dove ci fosse una chiesa. In lontananza vidi due suore vestite di grigio come quelle che per tre anni furono mie insegnanti a Lima. Mi precipitai da loro chiedendo se stessero andando in chiesa, che volevo andarci con loro, ma in cambio mi dissero di presentarmi il giovedì alla scuola d’italiano».

Da allora per Margarita tutto è cambiato: la solitudine è stata scacciata dall’appuntamento settimanale al Vides e dalla consapevolezza che in tutto c’è un messaggio del Signore da decifrare. «Sono partita dal mio paese perché volevo dare la possibilità alle mie due bambine di studiare. Oggi sono felice perché i miei sacrifici hanno portato frutto e sono diventate due brave ragazze». Appena arrivata in Italia, per Margarita il sentimento più difficile da accettare, oltre la lontananza della famiglia, era il sentirsi clandestina, senza documenti in regola e un lavoro sicuro. «Ritrovo la mano di Dio in quello che mi è capitato perché oggi capisco cosa si portano dentro i migranti che arrivano qui per avere un futuro migliore. Quando ho ottenuto il mio primo permesso di soggiorno, per me è stata una festa perché mi sono sentita di nuovo viva e riconosciuta come persona».

Dopo aver frequentato per tre anni la scuola d’italiano, Margarita ha ritrovato il Vides a una festa dei popoli in Prato della Valle e da lì non se ne è più allontanata. «La hermosa mujer, la donna meravigliosa che è suor Anna Maria, mi si è avvicinata alla fine di una danza popolare e mi ha detto di non dimenticarmi del Vides. Ho fatto mie quelle parole perché sentivo che mi stavano toccando dentro. Ho deciso di tornare e di mettermi a servizio per restituire quanto avevo ricevuto». Il giovedì Margarita segue il laboratorio “Tessere culture” e dà sempre una mano quando c’è da imparare una danza, un canto, oppure organizzare una festa, perché sa quanto le persone abbiano bisogno di socialità come quando lei era sola a Padova e la festa di Natale del Vides è stato il suo Natale in famiglia. E guai a chi le tocca il giovedì e la domenica: «Per me sono sacri: il giovedì per la nuestra escolita e la domenica per la messa».

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