«Un'Azione cattolica più consapevole, ma bisogna rimettere al centro le relazioni»

Domenica 12 febbraio l'associazione riunita all'Opsa ha rinnovato i propri responsabili diocesani. È finito così il doppio mandato di Filippo Doni come presidente unitario che in questa intervista fa il punto del suo servizio («sei anni belli e intensi, mi mancheranno») e guarda al futuro(«Al mio successore dico: l’Ac continui a fare da collante nelle comunità»).

«Un'Azione cattolica più consapevole, ma bisogna rimettere al centro le relazioni»

L’arrivo alla spicciolata di prima mattina. I saluti tra volti conosciuti e le presentazioni tra “esordienti”. Il vociare che riempie i corridoi dell’Opera della Provvidenza di Sarmeola. Domenica 12 febbraio si è ripetuto, come ogni tre anni, il rito democratico dell’Azione cattolica di Padova che ha chiamato a raccolta soci e responsabili per rinnovare il consiglio diocesano (e quindi la presidenza) e votare il documento assembleare che traccerà la vita dell’associazione da qui al 2020.

Una palestra democratica in cui chi è stato eletto avrà l’onere e l’onore condiviso di farsi voce di quanto stabilito insieme dalla base.

Tra quanti in questi anni hanno servito la chiesa padovana rappresentando dieci mila associati a livello diocesano c’è chi lascia, nel rispetto dello statuto, che dopo due mandati impone un cambio. Termina così, dopo sei anni intensi, l’esperienza di Filippo Doni come presidente diocesano. Una conclusione serena («sono contento per tutto quello che abbiamo fatto»), non senza un filo di nostalgia («il servizio e le persone mi mancheranno»).

Ma «dopo sei anni è giusto cambiare – garantisce Doni – All’Ac servono idee e voci nuove, per me è tempo di tornare a formarmi con più continuità rispetto a quanto il ruolo in questi anni mi abbia permesso».

Cosa significa per un laico servire la chiesa a questo livello?
«Anzitutto accedere a un patrimonio di relazioni, di storie e di idee particolarmente arricchenti. Certo non manca la fatica della gestione del tempo, di tenere insieme i vari aspetti della vita. Anche instaurare dialoghi fruttuosi all’interno di una chiesa in forte cambiamento costituisce una sfida certo non trascurabile».

E tutto si intreccia con la vita privata…
«Si intreccia fortemente: in questi sei anni ho conosciuto mia moglie – grazie all’Ac! – ci siamo sposati, sono arrivate due bimbe (Caterina e Rosalia, ndr), cambiato datore di lavoro, casa e parrocchia. Coniugare il tutto con un servizio che chiede molta presenza – anche una ventina di ore settimanali – è un’esperienza che forma: bisogna essere consapevole che si presenteranno situazioni impreviste da affrontare e che a qualcosa bisogna rinunciare: nel lavoro, nella famiglia e anche nell’associazione».

Com’è cambiata l’Ac di Padova in questi anni?
«Dal punto di vista della sensibilità e dell’attenzione per la vita pastorale della chiesa, poco. Anche se il calo degli aderenti ha indebolito la condivisione e le relazioni,

l’Ac oggi è più consapevole della sua specificità di associazione, diversa da un ufficio o da un movimento, e del suo posto in quanto tale nella pastorale. In questi anni abbiamo capito che la formazione degli educatori deve essere portata sul territorio, a misura di parrocchia e vicariato, e poi abbiamo dovuto rinunciare ad alcuni collaboratori in segreteria».

Quali i momenti che più ti sono rimasti impressi?
«Anzitutto l’assemblea 2012, quando abbiamo riunito i presidenti diocesani degli ultimi vent’anni e toccato con mano, nonostante i cambiamenti della società e della chiesa, la stessa sensibilità e lo stesso amore alla chiesa. E poi “Aquileia 2”, il convegno delle chiese del Triveneto che aveva in qualche modo delineato una chiesa “in uscita” prima dell’arrivo di papa Francesco. Peccato che quelle idee poi non siano state riprese e sviluppate adeguatamente».

Quale l’eredità che lasci al tuo successore?
«Anche se l’assestamento iniziale con il nuovo modello si è concluso, abbiamo bisogno di continuare a delineare la relazione tra Ac e iniziazione cristiana, con particolare attenzione sul quarto tempo. E poi va ricompreso il ruolo dell’associazione nelle comunità che sempre più si uniscono, condividono il parroco, vedono i propri vicariati ridefinirsi. In questo contesto

la ministerialità laicale dell’Ac di mantenere in comunione le comunità tra loro e con il livello diocesano, come la definiva il card. Ballestrero, diventa centrale».

La chiesa di Padova attraversa giorni complicati per la vicenda legata a don Contin. Quale il ruolo dei laici in tutto questo?
«Per la relazione che abbiamo con i pastori, quotidiana in tutte le nostre comunità, conosciamo bene l’umanità dei sacerdoti. Loro, come noi, non sono superuomini e se da un lato l’ordinazione dà loro una marcia in più, non mancano i rischi a cui sono esposti. Dobbiamo essere per loro sempre più amici e vicini, cercando il contatto per sostenerli e incoraggiarli, anche in un confronto franco sulle questioni della pastorale e della vita».

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