Un detenuto al Minore, ecco il giubileo del seminario

Il seminario minore sta “facendo giubileo” in un modo tutto particolare. Da novembre scorso, infatti, ha aperto le porte a Dione M’Baye, senegalese di 42 anni (che non dimostra affatto!). Ogni mattina, da lunedì a mercoledì, Dione lascia il carcere di Padova – dove si trova in regime di semilibertà da fine ottobre – e raggiunge il minore, dove lavora come manutentore.

Un detenuto al Minore, ecco il giubileo del seminario

Dione pulisce la palestra (che quest’anno è utilizzata da numerose società sportive), si occupa degli ampi spazi esterni... e di molto altro.
In una comunità come il seminario minore c’è molto da fare e lui si rimbocca le maniche ogni giorno, dalle 8 alle 15. Sta anche imparando cose nuove, così da aumentare le sue competenze.

Lo “accompagna” in questo lavoro don Nicola Andretta, educatore in seminario minore.
Ma anche tutti gli altri, seminaristi compresi, lo sostengono nell’esperienza. «Qui mi sento in famiglia. C’è una bella accoglienza».
«Più di un anno fa – spiega don Nicola – don Marco Pozza, cappellano della casa di reclusione di Padova, ci ha chiesto se eravamo disponibili ad accogliere un detenuto. Ci abbiamo riflettuto, poi abbiamo ascoltato i genitori dei seminaristi, per capire la loro posizione, e alla fine la cosa si è concretizzata. E così, un sabato mattina, Dione è venuto a conoscere la nostra comunità. Da subito ho colto in lui il forte desiderio di vivere questa esperienza e di dare il massimo. Ma anche un altro aspetto: la sua attenzione verso l’altro».

Quando, nel 2010, Dione è stato trasferito dal carcere di Tolmezzo a quello di Padova, ha subito manifestato il suo forte desiderio di reinserimento nella società.
Fin da subito, infatti, avrebbe voluto lavorare. Certo, non poteva fare l’autotrasportatore, come quando era fuori dal carcere. Di tempo ce n’è voluto un po’, ma poi è stato coinvolto dalla cooperativa Giotto, prima nella valigeria e poi dove vengono assemblate le biciclette.
«Non rinunciavo a nessun lavoro, perché sentivo che era importante. Il gestore di queste due attività, Alberto, mi diceva: “Vedrai che questo porterà frutto”. E così è stato!».
Dione ha capito subito cos’è il seminario minore e si è trovato immediatamente a suo agio. «Quando don Marco mi ha presentato questa possibilità, mi ha detto: “Tu sei una persona sempre positiva, quindi il seminario minore può essere un buon posto per te”. E poi sono sempre stato attorniato da bambini! Sono cresciuto nella famiglia di mia sorella, che aveva già parecchi figli. Io mi trovo bene con i bambini. Anche perché ne ho tre: tutte femmine! Due vivono con la mamma in provincia di Brescia. Hanno 7 e 10 anni. Da quando mi trovo in regime di semi-libertà riesco a parlare con loro ogni giorno e anche a vederle abbastanza spesso. La più grande, che di anni ne ha 17, abita in Senegal con mia sorella. Siamo in contatto via Skype».

Questa “presenza” in seminario minore sta diventando per i ragazzi occasione di riflessione.
«Con quelli delle medie, ad esempio, vivremo durante la quaresima un incontro con Dione per “toccare con mano” una delle opere di misericordia: visitare i carcerati. Loro, fin da subito, sono stati informati sulla sua presenza e sulle sue mansioni. L’hanno accolto con grande disponibilità e affetto, capendo la portata di questa esperienza. Per loro stessi, ma anche per tutto il seminario minore! Dione sta dando a questa comunità una grande apertura, ci provoca a non chiuderci solo sulla nostra identità, ma a interagire con il territorio, con la società. Il suo essere tra noi è la carità che si fa concreta. Per me, che lo accompagno nelle giornate lavorative, è anche un’occasione preziosa di condivisione. Ma anche un’esempio di puntualità, precisione, attenzione nel lavoro, nessuna perdita di tempo. Mi “costringe” a stare al suo passo!».

Il lavoro in seminario minore, ma anche la semi-libertà, hanno molto cambiato la vita di Dione.
«Quando ho cominciato a ottenere i permessi per uscire dal carcere, andavo alla casa di accoglienza Piccoli passi ogni due mesi. Poi sono riuscito ad andare ogni 45 giorni a Castelfranco, a casa di mia zia. Ora esco ogni giorno e questo mi dà più speranza. Appena sono fuori dal carcere chiamo le mie bambine, che stanno facendo colazione prima della scuola. Quando finisco il lavoro, le risento. E così di nuovo prima di rientrare in carcere, intorno alle 19. Provo a dare loro il massimo dell’affetto, visto che per molto tempo non mi hanno visto. Le sto riconquistando! Stare fuori mi permette anche di vedere il mondo. Di prendere le misure per reinserirmi al meglio. Già la semi-libertà è un passo enorme... Dove vivo ora si vede fuori dal carcere. Anche dove mi trovavo prima, nella sezione, vedevo fuori... ma c’erano 14/15 porte che mi dividevano dall’esterno».

Fin dal suo arrivo a Padova, Dione ha frequentato la messa nella cappella della casa di reclusione.
Da un po’ di tempo, inoltre, accompagna le celebrazioni suonando i bonghi («Sono uno strumento senegalese – gli hanno detto – quindi tocca a te»). «Non perdo mai la messa, è troppo importante! Mi ha permesso di incontrare persone che mi hanno donato tanto affetto. È questo che mi dà la forza di cambiare e non posso non ringraziare don Marco, Chiara, Tiziana e tanti altri. Loro dicono che porto positività alla messa e mi chiedono dove la trovo. È il mio modo di aprire il cuore per non soffrire».

Le "periferie alla nostra porta"
In riferimento a questa esperienza, ma anche oltre, il rettore dei seminari maggiore e minore, don Giampaolo Dianin, dice: «Non siamo stati noi a cercare le “periferie” ma loro hanno bussato alla nostra porta. Potevamo dire di no? E così in seminario minore abbiamo accolto questo giovane detenuto e al maggiore per tre volte alla settimana un bel gruppo di immigrati provenienti dal Bangladesh vengono a studiare la lingua italiana. Per noi sono piccoli segni che ci aiutano a tenere vive e presenti situazioni di marginalità e di sofferenza. Sono presenze belle e discrete che cerchiamo di inserire nella normalità di ogni giorno».
Durante l’incontro con Dione, nel suo nuovo luogo di lavoro, lo sento ripetere più e più volte che vuole reinserirsi nel mondo. Che tutti possono sbagliare, ma che per ciascuno può esserci una nuova possibilità. Che è l’affetto degli altri a cambiarti. «Che tutti i gruppi che entrano in carcere, sedendosi tra i detenuti per la messa o per qualche incontro, sono un’occasione importante per far conoscere la realtà in cui viviamo e, forse, sconfiggere qualche pregiudizio».
Più di tutto, però, parla della sua famiglia: «Nel futuro voglio vivere con le mie figlie più a lungo possibile. È troppo grande la sofferenza per la distanza dalla mia famiglia. Con il lavoro e il tanto affetto ricevuto, sento che ce la farò».

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