2017: sarà l'anno di Tito Livio

La patavinitas dello storico augusteo Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.), più che di provincialismo nella sua prosa, era segno di austerità morale riconosciuta per secoli in tutta Italia. Resta invece tutto padovano il "giallo" del ritrovamento del suo corpo.

2017: sarà l'anno di Tito Livio

Certamente sarà l’anno di Tito Livio, e non solo per Padova, che si vanta di avergli dato i natali, ma anche per l’Italia tutta che lo annovera tra i massimi storici dell’età antica, primo nell’epoca imperiale.

Nato nel 59 avanti Cristo, Livio è morto nell’anno 17 dell’era cristiana, giusto duemila anni fa. Dei 142 libri con cui ha raccontato la storia di Roma Ab urbe condita, dalla fondazione all’età sua contemporanea, ne rimangono solo 35, un numero comunque sufficiente per farlo amare da grandi personaggi come Machiavelli.

Anche se i suoi contemporanei lo accusavano di “patavinitas”, di un certo provincialismo cioè nello stile della sua prosa. E a questa padovanità arcaica si deve forse anche quel suo attaccamento alle virtù degli avi; il senso dello stato, l’onestà, l’austerità di vita, l’attaccamento alla religione. Le celebrazioni sono partite da lontano (almeno dal convegno di studi dell’università del 2015) e devono arrivare lontano, politica permettendo.

Se la sua gloria è universale, tutto padovano è il “giallo” del ritrovamento del suo corpo in età umanistica. Tra 1345 e 1350, scriveva nella sua Storia di Padova Attilio Simioni, nell’orto di Santa Giustina dove la tradizione diceva sorgesse il tempio della Concordia nel quale lo storico sarebbe stato sepolto, fu trovata una lapide sepolcrale del primo secolo col nome di Livio. Era un Titus Livius Halys Concordialis, liberto d’una Livia Quarta, figlia di Tito Livio: una volta liberato, lo schiavo aveva assunto il nome del precedente padrone raggiungendo a Padova la dignità di sacerdote della dea Concordia. L’unico legame con Livio è quindi l’ipotesi che Livia Quarta possa essere parente prossima del nostro storico. Jacopo II da Carrara comunque la fece murare nell’atrio della basilica di Santa Giustina e il Petrarca stesso immagina di aver scritto lì davanti l’epistola nella quale ringrazia Livio perché riusciva a distoglierlo dalla tristezza dei tempi riportandolo con la fantasia ai fasti romani.

La sua “vera” lapide funeraria, incisa su un blocco grezzo di trachite euganea, è probabilmente quella conservata nell’atrio di palazzo Capodilista. Dalla lapide al corpo: il 31 agosto 1413 l’umanista Sicco Polenton, cancelliere del comune patavino, fu avvertito da un certo frate Rolando «amante della patria e della letteratura» che era stata trovata, nell’orto del monastero, un’antica tomba contenente una cassa di piombo con dentro uno scheletro ben conservato. Era sicuramente Tito Livio!

Un gran folla accorse subito a vedere il corpo e gli scolari stranieri dell’università s’impadronirono dei denti come reliquia o souvenir. Il monaco di Santa Giustina che sostituiva l’abate Ludovico Barbo assente, scandalizzato che un pagano fosse oggetto di una specie di “culto”, pensò di distruggere lo scheletro a partire dal cranio, che ridusse a pezzi con martello e scalpello. Polenton riuscì a stento a salvare il resto, portandolo al sicuro nella casa del Capitanio; egli si proponeva anche di curare l’erezione di un grande monumento funebre che doveva sorgere presso la chiesa di San Clemente in piazza dei Signori.

Perfino alla corte fiorentina di papa Martino V, nel 1419, si discusse dell’autenticità delle ossa di Livio. Nel 1451 Alfonso I d’Aragona, re di Napoli, chiese a Venezia una reliquia del poeta e il senato gli inviò una parte dell’avambraccio destro. Sembra che il re si facesse leggere e commentare ogni giorno un passo di Livio e si portasse anche in guerra una copia delle Storie. D’altra parte la passione per Livio contagiò vari condottieri rinascimentali, tra cui bisogna ricordare almeno Bartolomeo d’Alviano, corresponsabile della disfatta veneziana di Agnadello, ma anche della vittoria di Marignano, suo canto del cigno, e della costruzione della cinta bastionata padovana. La sua passione per l’antico padovano arrivò al punto che cambiò il suo nome in Bartolomeo Liviano e Liviana si chiama la porta delle mura a lui dedicata; diede nome Livio al figlio che ereditò il mestiere delle armi e morì a 23 anni combattendo con i francesi a Cherasco.

Tornando al vero Livio, il corpo fu collocato in un’urna e una mandibola sfuggita alla distruzione fu racchiusa in una sfera di metallo dorato e sospesa al soffitto di una stanza della Cancelleria, ma presto l’interesse per questi poveri resti venne meno. Bisogna sperare che, almeno nel bimillenario, l’attenzione al grande storico non faccia questa fine e produca frutti duraturi. La Padova augustea è una miniera ancora ricca di idee da percorrere in chiave culturale e turistica.

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