Cosa resta del pensiero di don Milani?

I punti fissi della sua pastorale erano: schierare il pensiero e l’azione della chiesa dalla parte degli ultimi; lottare contro la manipolazione del significato delle parole e l’analfabetismo di significato a cui sono condannati i poveri; operare per una diversa formazione dei preti.
Ma a cinquant’anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 26 giugno 1967, quando aveva appena 44 anni, che cosa resta della figura e del messaggio di don Lorenzo Milani?

Cosa resta del pensiero di don Milani?

Il nome di don Lorenzo Milani, associato a titoli “storici” per più di una generazione di cattolici e di italiani, come Lettera a una professoressa e L’obbedienza non è più una virtù, ha forse oggi perduto lo smalto “profetico” che aveva qualche decina d’anni fa?

Lo chiediamo a Fiorenza Carnovik, un nome noto alla chiesa padovana per essere stata presidente diocesana della San Vincenzo e per il suo costante impegno nel volontariato e «perché la chiesa –così si autopresenta – sia sensibile e attenta alla fame e alla sete di giustizia dei poveri».

La sua “passione” per il sacerdote fiorentino risale alla tesi per il magistero in scienze religiose su “La pastorale del lavoro in padre Jacques Low e don Lorenzo Milani”.
«Una tesi – racconta – che mi parve subito importante proprio per l’aver constatato di persona quanti pregiudizi e preclusioni esistevano, nel mondo sociale ed ecclesiale, verso le persone considerate socialmente non qualificate. Pensiamoci: in quali comunità parrocchiale, anche oggi, trovano spazio i racconti di fede delle persone meno acculturate? Eppure hanno una saggezza dettata dalla vita vissuta che sarebbe preziosa anche per la fede».

Don Milani si era posto come preciso obiettivo pastorale quello di schierare il pensiero e l’azione della chiesa a favore degli ultimi, degli emarginati, degli “scarti”.
A quel tempo, negli anni Cinquanta e Sessanta, erano i contadini e gli operai. «L’ultimo rapporto Censis – commenta Fiorenza Carnovik – ha dichiarato che queste categorie sociologiche non esistono più. Ma non per questo possiamo dire che il pensiero di don Milani sia superato. Nel momento in cui l’Ilva sta espellendo migliaia di “esuberi”, e che la disoccupazione ha raggiunti livelli e tipologie inusitate (negli anni Sessanta non era nemmeno ipotizzabile la disoccupazione dei diplomati e dei laureati...) il tema della giustizia per cui si è speso, in una visione globale, cristiana dell’umanità, è quanto mai attuale».

Il cinquantenario della morte di don Milani potrebbe essere dunque l’occasione giusta per farlo conoscere in maniera accessibile non solo agli intellettuali che lo leggono a pagine alterne, in base a quello che è loro utile, ma anche alle categorie sociali di cui lui chiedeva di essere interlocutore, e i disoccupati sono sicuramente in testa a questa lista.

Egli si era dimostrato profetico, cioè capace di leggere le tendenze della storia, nel vedere con chiarezza l’amplificazione dello squilibrio tra i pochi ricchi e i poveri, in numero crescente; tra il capitale con i suoi giochi e chi da questi giochi è tagliato fuori. Giochi che si mascherano dietro le parole. L’accessibilità della comunicazione e dell’informazione è un’altra delle linee guida del suo pensiero. Don Lorenzo riteneva un delitto la manipolazione del significato delle parole compiuto da chi è allenato nell’uso della lingua, al punto da renderle inintelleggibili o perfino manipolatrici.
«L’analfabetismo, come lo vedeva lui – sostiene ancora Fiorenza Carnovik – non era questione di saper leggere e scrivere, come nell’Ottocento, ma di saper capire e spiegare. La lingua ufficiale italiana era (è?) utilizzata da dirigenti, politici, burocrati, giornalisti in modo da renderla praticamente inaccessibile, nel suo significato reale, alla maggioranza della gente, anche se ha un diploma superiore. Figurarsi quando si tratta di immigrati, di persone che solo di recente sono venute a contatto con i nostri sistemi di comunicazione».

Si potrebbe dire che, da questa prospettiva, don Milani ha compiuto un percorso analogo a quello intrapreso, otto secoli fa, da un santo ben noto ai padovani, Antonio.
Il portoghese era un prete agostiniano, uno studioso, un teologo. Nei monasteri di Coimbra e di Lisbona deve averne viste di cose riguardo alla vanità del sapere! Quindi entra in crisi e, sposando in pieno l’ideale francescano, accantona e rigetta tutto il suo sapere per seguire il Poverello d’Assisi, che non voleva che i suoi frati sapessero di teologia.

«Anche don Milani accantona il suo sapere per seguire Cristo e i suoi poveri. Solo a questo punto, una volta stabilito il suo scopo, quello di essere vicino ai semplici, agli “analfabeti” dei significati, per insegnare ai suoi ragazzi ritorna indietro e riprende in mano quel capitale culturale reindirizzandolo con chiarezza in una nuova prospettiva. Allo stesso modo Antonio ottiene da Francesco la licenza d’insegnare teologia ai frati. Probabilmente la sua lingua benedetta è rimasta miracolosamente intatta anche dopo la morte non soltanto per la sapienza, o l’eloquenza con cui usava le parole, ma piuttosto per la vigilanza nel non usare un vocabolario che gli altri, i popolani a cui rivolgeva le sue prediche, non potessero capire! È un travaglio che rimane tuttora vivo nella chiesa».

E alla chiesa, alla sua attenzione a chi ha “fame e sete di giustizia” don Milani rimase costantemente rivolto.
Avrebbe voluto anzitutto avere come interlocutori i sacerdoti come lui, in cura d’anime. Non a caso l’unica sua “vera” pubblicazione, quelle Esperienze pastorali scritte nella primavera del 1958 dopo otto mesi di lavoro, è rivolta espressamente ai preti. «Sulla cultura del prete – conclude Fiorenza Carnovik – la presa di posizione del priore di Barbiana è stato netta e chiara e il tema mi pare non superato. Come padre Jacques Lew, il prete operaio a cui ho dedicato la prima parte della mia tesi, si chiedeva se la cultura fornita ai presbiteri fosse quella realmente necessaria al loro servizio pastorale, alla loro missione, o non fossero invece nutriti nei seminari di quella cultura borghese medio-alta che in qualche modo, al contrario, inibisce la loro vera vocazione».

In appendice a Esperienze pastorali don Milani ha inserito una “Lettera a don Piero” che meriterebbe da sola più di un convegno ecclesiale.
Oggi i documenti della chiesa, le parole di papa Francesco sono pienamente consapevoli delle questioni sociali a cui la pastorale non può essere indifferente. Ci sono i pastori per metterle in pratica?

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