Il mondo è ricco di petrolio... ed è meglio lasciarlo dov'è

L’università di Padova, nell’ambito del dipartimento di ingegneria civile, edile e ambientale, sta conducendo il progetto di un atlante mondiale del combustibile fossile “inestraibile”, quello cioè che è meglio lasciare dov’è per non creare gravi danni ambientali e antropologici. Un atlante che è partito dall’Amazzonia e dall’Italia.

Il mondo è ricco di petrolio... ed è meglio lasciarlo dov'è

Forza ragazzi, yasunizziamo la Terra
A prima vista non è che, come slogan, sia di quelli che scatenano gli entusiasmi. Ma, a ben guardare e a meglio spiegare, la “yasunizzazione” del mondo, obiettivo di un progetto di ricerca di ateneo dell’università di Padova appare un ragionevole traguardo di politica energetico-ambientale su cui val la pena di “metterci l’anima” e la mente.

La mente è quella di studiosi e studenti che aderiscono al progetto, volto a creare usando la cartografia e le rilevazioni satellitari un atlante mondiale del combustibile fossile “inestraibile”, che è meglio cioè lasciare dove sta, sotto terra, per evitare seri guai ambientali e antropologici.

A questo punto bisogna spiegare il neologismo: “Yasunì-Itt” è il nome del primo e finora unico esperimento al mondo di sospensione dell’estrazione di idrocarburi avvenuto in Ecuador, sotto la foresta amazzonica al confine con il Perù, tra il 2006 e il 2013.
Una proposta sostenuta da forti motivazioni sociali e ambientali relative alle aree che si trovano al di sopra dei giacimenti.
Sono infatti zone forestali che contengono uno dei più alti tassi di biodiversità del pianeta e che ospitano popolazioni indigene fortemente motivate a mantenere i propri valori e le proprie condizioni di vita.

Il progetto, accolto “malvolentieri” dal presidente ecuadoriano Correa, a patto che la comunità internazionale lo risarcisse almeno in parte del perduto introito, è stato chiuso nel 2013 anche per la mancata risposta della comunità stessa, e oggi il parlamento ecuadoriano ha approvato le estrazioni petrolifere che inizieranno a breve nelle zone confinanti al parco Yasunì e poi al suo interno.

«Ma il nome – spiega Massimo De Marchi, docente di metodi di valutazione ambientale, legislazione ambientale, laboratorio di cartografia e Gis per la biodiversità, coordinatore del progetto padovano – è rimasto nella comunità scientifica e nella società civile a indicare un processo che nasce dal basso e che chiede di “mantenere il petrolio nel sottosuolo” con una molteplicità di obiettivi correlati: protezione del clima globale, giustizia climatica, diritti umani e conservazione della biodiversità».

Su questi temi l’università ha organizzato un ciclo di tre seminari conclusi il 20 luglio scorso proprio come contributo alla realizzazione dell’atlante mondiale dell’“unburnable carbon”.
«Per evitare che i cambiamenti climatici producano effetti gravi, estesi e irreversibili sulla popolazione e sugli ecosistemi del mondo intero – chiarisce De Marchi – occorre ridurre in maniera consistente le emissioni di gas climalteranti, avviando la transizione verso la società del “post-carbonio”. Per far questo bisogna “lasciare dove sta” l’80 per cento del carbone, il 50 per cento del gas e il 30 per cento del petrolio presenti nelle riserve oggi conosciute. Fermo restando che non siamo ancora pronti per far senza i combustibili fossili, ma che questa è la strada obbligata, tanto vale pianificare la diminuzione in modo da causare meno danni possibili alla Terra. Ecco il senso dell’atlante da noi proposto, una mappatura scientifica dei siti che metta insieme tutti i dati disponibili e permetta di capire, a livello planetario, quali combustibili è possibile estrarre e quali è invece opportuno lasciare dove stanno.

Intendiamo offrire metodi e dati scientifici a scelte politiche quanto mai urgenti, che non tengano conto solo dei costi di estrazione, ma anche di criteri ambientali, di sostenibilità territoriale non ancora sufficientemente presi in considerazione.

Il progetto padovano sta mettendo a punto una metodologia geografica, trasparente, scientifica, socialmente inclusiva e strutturata che sappia dire dove, quando, come e con chi attuare concretamente le operazioni necessarie a lasciare gli idrocarburi nel sottosuolo». 

Un progetto indubbiamente ambizioso, iniziato da Padova partendo dall’Amazzonia e poi esteso all’Italia, che si attuerà a piccoli passi, vista la carenza di finanziamenti.
L’analisi geografica ambientale esige infatti l’elaborazione di numerose banche dati che vanno dalle immagini satellitari alle analisi in formato non geografico.

I prossimi paesi a cui il progetto (che, va precisato, riguarda solo i giacimenti on-shore, cioè su terraferma) intende rivolgere l’attenzione sono quelli nord e centramericani: Canada, Stati Uniti, Messico.

Tutti paesi in cui una grande produzione di combustibili fossili s’associa alla grande delicatezza ambientale.

Intanto è stato appena pubblicato dalla Cleup uno studio riguardante il più grande giacimento onshore europeo, che pochi sanno essere in Italia, nella Val d’Agri, parco naturale della Basilicata.
La ricerca di Alberto Diantini è importante anche in termini generali perché mette a punto “Linee guida petrolio impatto e mitigazioni”, strumento «per rendere le attività di progettazione e valutazione scientificamente fondate, socialmente trasparenti e far uscire il dibattito pubblico dalle classiche due prigioni polarizzanti: il positivismo ingenuo e l’opposizione tout-court della tecnologia».

Il nodo centrale è la valutazione di impatto ambientale che le normative europee hanno aggiornato e i singoli stati erano chiamati ad adottare entro maggio.
I lavori di ricerca universitaria in corso da anni a Padova hanno anche lo scopo di individuare criteri chiari per le procedure di mitigazione delle operazioni di estrazione e di monitoraggio e controllo delle stesse.

Anche una volta presa la decisione di estrarre, la scienza rimane indispensabile per limitare gli impatti.
Senza contare che in molti casi anche il solo annuncio del monitoraggio delle acque o di altre fonti di inquinanti riduce l’inquinamento perché impone alle imprese una maggiore attenzione sui procedimenti.

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