L'economia digitale piace sempre di più al turismo

In Italia è possibile locare alloggi ai turisti, se è a fini turistici e in via occasionale, senza doversi troppo preoccupare delle normative cui sottostanno le classiche strutture ricettive: ma c’è chi ne approfitta. È auspicabile che si faccia chiarezza.

L'economia digitale piace sempre di più al turismo

È quello della ricettività il settore che più risente della concorrenza di chi affitta alloggi e stanze sfruttando le opportunità offerte oggi dal web. È legale tutto questo? In qualche modo sì e cerca di chiarirci le idee l’avvocato Gianluca Rossoni, esperto di diritto del turismo, disciplina che insegna all’università di Bergamo.

«Il settore turistico – spiega Rossoni – è quello in cui maggiormente si usa il web: pochi comprano lavatrici on line, quasi tutti vi prenotano viaggi e camere. Lo sharing è nato dal baratto: ad esempio, due persone si scambiavano le proprie case a titolo gratuito. Il problema sorge quando della barter economy rimane solo l’economy».

Ma la legge italiana permette di affittare le proprie case così facilmente?
«A disciplinare le tipologie ricettive sono le regioni, che hanno competenza sul turismo. Gli alberghi e anche i bed&breakfast sono normati dalle regioni. Ma la tipologia della “casa per ferie” no, è prevista dalla normativa sulle locazioni, che è statale. Richiamandosi a tale normativa e dichiarando la finalità solo turistica della locazione, c’è libertà dalle regole regionali».

Vi sono delle limitazioni?
«Certo: le case per ferie devono essere affitti occasionali. Ma questo implica che non siano necessarie né una partita iva né una qualifica imprenditoriale. Cosa vuol dire “occasionale”, poi, la legge non lo spiega. Se un alloggio rimane per tutto l’anno disponibile su un sito internet, a mio parere non si può dire che sia un’attività occasionale».

È quindi una scappatoia all’italiana?
«Diciamo che siti come Airbnb usano i vuoti delle normative per permettere ai privati di mettere in locazione i propri alloggi. Siccome poi agiscono come sostituti d’imposta, trattenendo e versando le tasse di soggiorno e quant’altro, sono persino ben visti da alcuni comuni perché fanno emergere una quota di abusivo. Chi ci rimette? Gli albergatori, che trovano più concorrenza da parte di chi non deve sottostare alle stesse regole e costi».

È davvero concorrenza? O chi sceglie una stanza forse è perché non vuole andare in un albergo?
«È vero. Ma il problema non è l’offerta di affitto occasionale bensì quello che diventa pura attività commerciale. Tenga presente che dietro questi annunci spesso vi sono delle agenzie immobiliari, che gestiscono gli appartamenti per conto dei relativi proprietari. Cosa c’è di sharing in tutto questo?».

Ha fatto notizia il recente divieto di affitto posto dal comune di Berlino a chi non ha regolare licenza. È una strada perseguibile?
«Vietando e ponendo nuove regole si fermerebbe il fenomeno? Difficile dirlo. La tendenza, anche all’estero, è quella di andare verso una forma di regolamentazione definibile “soft”. Perché la richiesta c’è e l’obiettivo è fare emergere il “nero”, non promuoverlo. E perché il fenomeno ha anche aspetti positivi, ad esempio offre alloggi in zone che non ne propongono altri e fa arrivare i turisti in aree meno note, pensiamo ai quartieri di periferia, dove portano risorse e fanno lavorare negozi e ristoranti. C’è però da garantire la tutela degli ospiti: chi controlla questi appartamenti? Airbnb o un ente pubblico? Si sta facendo strada l’idea di un codice di autoregolamentazione, per cui chi firma deve certificare il rispetto di alcuni requisiti minimi. C’è da capire chi poi controllerà che abbia dichiarato il vero». E In epoca di terrorismo e massimi controlli, questa libertà sorprende... «Si tratta di fare in modo, come in Spagna, che anche questi alloggi trasmettano in automatico i dati dei clienti all’autorità pubblica. Basta un’applicazione: in Spagna hanno risolto così».

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