L'era del lavoro "ibrido" e senza identità

La preoccupante analisi del Censis: "Lavoro ibrido" per il 51 per cento degli occupati di 15-24 anni. E sono quasi 9 milioni gli italiani in transizione da una condizione professionale a un'altra. Tutti senza rappresentanza, mentre cala anche la partecipazione alle attività sindacali e associative.

L'era del lavoro "ibrido" e senza identità

Oggi in Italia ci sono complessivamente 9 milioni di persone che si trovano in una fase di transizione da una condizione professionale a un'altra.
Si tratta di 1.448.000 italiani che tentano di entrare nel mercato del lavoro, cercando attivamente un lavoro per la prima volta nella vita (815.000) o dopo un lungo periodo di inattività (633.000).
Poi ci sono 6.379.000 persone che vivono una situazione di transizione interna al mercato del lavoro: sono 1.664.000 ex occupati che hanno perso un lavoro e ne stanno cercando un altro, 3.383.000 lavoratori impiegati in modo instabile o precario, 1 milione di occupati che stanno cercando di cambiare lavoro, 443.000 assenti dal lavoro per motivi personali o di salute, 368.000 lavoratori che si trovano in una fase di passaggio particolarmente rischiosa, perché cassintegrati o sottoccupati a causa della crisi.
Infine, ci sono 1.381.000 lavoratori over 60 anni colpiti dalle recenti riforme che hanno fatto slittare in avanti i tempi di maturazione dei requisiti previdenziali, allungando la fase di uscita dal lavoro. Considerando l'insieme delle posizioni mobili, sono 66,6 ogni 100 posizioni lavorative fisse: un dato eclatante, se si considera che nel 2008 queste ammontavano a 47,6 e che nell'ultimo quinquennio l'universo complessivo dei lavoratori in transizione ha registrato un incremento del 18,8 per cento.

Lavoro e ideologie non "costruiscono" più l'identità personale. All'origine della crisi di identità e appartenenze dei nostri giorni c'è lo sgretolamento di quelli che in passato erano stati i fattori aggreganti: lavoro e ideologie, che oggi appaiono sempre meno capaci di fare tessuto. Una indagine del Censis dimostra che solo il 15,2 per cento degli italiani condivide ancora una qualche forma di appartenenza di classe, dichiarando che le persone a cui si sentono più vicini sono quelle che svolgono lo stesso lavoro (7,9%) o che hanno lo stesso reddito (7,3%).
Ancora più debole è la forza delle ideologie: solo il 5,2 per cento degli italiani si sente vicino a persone che hanno le stesse idee politiche (2,8%) o la stessa fede religiosa (2,4%). I fattori che invece innescano meccanismi di appartenenza oggi riguardano la dimensione individuale delle persone: al primo posto (26,6%) c'è la condivisione dello stesso stile di vita. Interessi culturali, vacanze, sport riescono a sviluppare maggiore senso di appartenenza.

I giovani e il lavoro "ibrido". In una terra di mezzo tra il lavoro dipendente tradizionale e quello autonomo di tipo imprenditoriale e professionale, si è sviluppata un'area del "lavoro ibrido" che ha impattato negativamente sul sistema tradizionale della rappresentanza, articolato in associazioni datoriali, da una parte, e sindacali, dall'altra.
Quest'area conta 3,4 milioni di occupati (il 15,1% del totale) tra lavoratori temporanei, intermittenti, collaboratori, partite Iva, prestatori d'opera occasionale. Soprattutto per i giovani è sempre più ardua l'autocollocazione rispetto alle categorie del passato. Tra gli occupati di 15-24 anni la quota di «ibridi» è maggioritaria, pari al 50,7 per cento. Tra loro è forte la paura di perdere l'impiego: circa 1 milione di giovani con meno di 35 anni (il 18,8%) teme di perdere il posto di lavoro nei prossimi mesi e solo l'11,1 per cento ritiene che poi sarà relativamente facile ritrovarne uno simile.

Il deterioramento del lavoro. I percorsi professionali sono diventati sempre più frammentati. Si moltiplicano i tempi di non lavoro nell'ambito della vita delle persone: il 14 per cento degli occupati si è trovato negli ultimi tre anni a interrompere il proprio percorso professionale, incorrendo in uscite temporanee o ripetute dall'attività lavorativa.
Tale rischio è maggiore nelle fasce generazionali più giovani, tra i 16 e i 34 anni, dove il 20,5 per cento degli occupati si è trovato a vivere periodi di non lavoro, e anche nel Mezzogiorno, dove la percentuale arriva al 21,5 per cento.
Assistiamo anche a un progressivo sfilacciamento dei legami di appartenenza aziendale: sono 2.229.000 gli occupati dipendenti (il 18,9% del totale) che hanno con le aziende presso cui lavorano un rapporto a termine, e tra i giovani con meno di 35 anni la percentuale arriva al 27,7 per cento.
Anche la riduzione dell'impegno lavorativo, e conseguentemente dell'investimento professionale, accomuna sempre più occupati: tra il 2008 e il 2013 il numero dei lavoratori part time è aumentato del 19,9 per cento, arrivando a quota 4.013.000 (il 17,9% del totale).
Pesa il deterioramento delle relazioni nei luoghi di lavoro: gli italiani sono il popolo europeo tra cui si registra il più basso livello di collaborazione tra colleghi (il 51% contro una media europea del 73%). E aumenta la disaffezione verso un lavoro divenuto troppo spesso fonte di problemi: il 30 per cento dei lavoratori italiani (contro il 27% della media europea) dichiara di avere accusato nel corso dell'anno stress, depressione e ansia legati alla propria condizione lavorativa.

I sindacati e le associazioni? Bene, ma… Negli ultimi anni la voglia degli italiani di impegnarsi nella tutela di interessi collettivi è diminuita. Si riduce la quota di cittadini che svolgono attività gratuite per sindacati o strutture di rappresentanza: dall'1,3 per cento del 2003 all'1,1 del 2013 (571mila persone). Anche le associazioni impegnate nelle grandi battaglie per l'ambiente, la pace, i diritti civili perdono attivisti: dal 2,3 all'1,5 per cento degli italiani (778 mila persone).
Malgrado la sfiducia generalizzata verso le classi dirigenti del paese, rappresentanze sociali comprese, la maggioranza degli italiani (59,7%) continua però a considerare gli organismi intermedi come un elemento centrale nel funzionamento democratico del sistema: il 42,5 per cento li ritiene importanti in quanto rappresentanti di interessi e valori comuni a gruppi di cittadini e il 17,2 ritiene un valore la loro presenza come collante aggregativo in una società sempre più individualista. Il 40,3 per cento degli italiani invece ha un giudizio negativo: il 12,7 considera il loro ruolo del tutto inutile perché gli interessi devono esprimersi attraverso la politica e le istituzioni, il 16,9 pensa che siano superati perché superate sono le logiche aggregative degli interessi secondo le appartenenze professionali, e il 10,7 punta il dito sull'approccio corporativo dei soggetti di rappresentanza e sulla loro tendenza a chiudersi nella difesa di interessi settoriali.

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Parole chiave: lavoro (188), giovani (290), rappresentanza (4), sindacati (16), disoccupazione (59)
Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)