Neet: la "generazione perduta" a cui l'Italia non sa dare risposte

Hanno terminato gli studi e non cercano lavoro: una generazione di giovani che vive un'esistenza ferma. In Italia, i numeri sono preoccupanti: assenza di lavoro, ma anche paura e difficoltà nel pensare a un possibile futuro. I "neet" nel nostro paese sono aumentati del 10 per cento dal 2005 al 2015, e i sociologi si spingono già a parlare di una vera e propria "generazione perduta".

Neet: la "generazione perduta" a cui l'Italia non sa dare risposte

La chiamano generazione Neet, acronimo inglese che sta per “not (engaged) in education, employment or training”, ovvero quei ragazzi che, terminati gli studi, non hanno un lavoro, non lo cercano e non sono nemmeno impegnati nella formazione personale.
Più dei dati sulla disoccupazione giovanile, i Neet, la cui fascia si allarga oltre la soglia dei 30 anni, rappresentano uno dei principali indicatori di disagio ed esclusione sociale e l’Italia, secondo i dati 2016 diffusi dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) risulta fanalino di coda.

Nella nostra penisola, oltre un terzo dei giovani tra i 20 e i 24 anni di età non lavora e non studia e, tra il 2005 e il 2015, sono aumentati del 10 per cento, una percentuale maggiore rispetto agli altri paesi monitorati dall’Ocse.
Sfiducia, frustrazione e disillusione sono i sentimenti che disegnano una generazione che gli studiosi definiscono “perduta”.

«Alcuni ragazzi vivono un’esistenza ferma, altri continuano a cercare, mandano curriculum, ma non sanno come muoversi, c’è rassegnazione per mancanza di risposte da parte del mondo esterno – spiega Luigi D’Elia, psicologo e psicoterapeuta di Roma che da diversi anni, in contatto coi suoi giovani pazienti, sta approfondendo questo fenomeno – Non c’è una persona dai 25 ai 40 anni che non mi parli di problemi legati al lavoro: convivono con una precarietà generalizzata che li porta a industriarsi oppure a cedere, abbandonandosi in attesa di qualcosa o di qualcuno. La mancanza di lavoro o il susseguirsi di impieghi a intermittenza hanno alterato i cicli vitali, hanno cambiato la temporalità. Si vive a corto raggio: e d'altronde, come si può progettare il futuro senza garanzie? C’è chi ci prova, come un ragazzo di 30 anni che ho in cura: ha studiato come video maker, non ha trovato nulla ed è tornato a lavorare in un call center, scontrandosi con il suo orgoglio e con la nostra cultura che lo etichetta come un fallito che non realizzato nulla nella vita».

In Italia, nel periodo precedente alla crisi, i Neet erano 1,8 milioni. Ora, nel giro di sette anni, 2,4 milioni di ragazzi sono entrati in questo labirinto contorto.
Si sta sprecando capitale umano e si punta il dito contro la crisi economica che ha espulso dal mercato lavorativo chi aveva contratti provvisori, andando a ingrossare le fila dei nuovi disoccupati. Aumentano anche gli scoraggiati, coloro che, travolti da una società dinamica ma che ha perso punti di riferimento e coordinate, rispondono stando immobili, ma non va trascurato il fatto che tra le pieghe dell’inattività, che molti ragazzi hanno difficoltà ad auto-dichiarare, c’è anche la difficoltà di staccarsi dal nucleo familiare, che alla lunga risulta essere morboso e deleterio.

«Quella dei ragazzi che hanno smesso di cercare lavoro e di impiegarsi in altre attività è una tendenza sociale poco percepita dalle famiglie per una mancanza di formazione e conoscenza di base, ma anche per troppo spirito protettivo – continua lo psicologo D’Elia – Se spesso i ragazzi non mostrano disagio consapevole e diretto per la loro condizione di mancata autonomia e di progettualità esistenziale, è anche perché molte famiglie non si preoccupano a sufficienza e, pur di non modificare questa staticità, trovano un equilibrio economico precario in cui ogni cambiamento viene visto come catastrofico o traumatico. Il lavoro è fondamentale nel determinare e far crescere una persona, ma non sempre sembra necessario. Ricordo un ragazzo di 28 anni, per esempio, mantenuto dai genitori, iscritto a ingegneria ma che non dava esami: ha trovato lavoro, a tempo indeterminato, in un ufficio postale, ma con la sicurezza di avere le spalle coperte, dopo solo 4 mesi si è fatto cacciare perché vuole fare solo quel che gli piace».

Secondo Eurostat, il 66 per cento dei giovani italiani vive ancora a casa con i genitori: una percentuale di quasi venti punti superiore rispetto alla media dei paesi dell’Unione europea.
È un quadro clinico complesso che ingloba differenti casistiche e, anche se secondo l'Istat i Neet sono scesi di 252 mila unità in un anno, il fenomeno rimane rilevante nella fascia dopo i 24 anni, coerentemente col fatto che attorno a questa età si concludono i percorsi di studio universitari e si dovrebbe entrare nel mercato lavorativo.

Alcuni rinviano questo passaggio attardandosi negli studi, altri proseguono con master o corsi per presentarsi, in linea teorica, più competitivi. Poi ci sono quelli che, lasciata alle spalle una via sicura fatta di esami e scadenze programmate, hanno paura.

«Ci sono ragazzi che non si sentono all’altezza, manca l’ambizione causata anche dal poco lavoro che c’è in giro che porta a prendere ciò che capita tra le mani. Fateci caso: durante i colloqui per un’assunzione non si chiede più la retribuzione, sembra una mancanza di rispetto verso chi sta offrendo un lavoro che, visto i tempi, già dovrebbe essere sufficiente. Qui emerge l’altra faccia della medaglia: il lavoro è diventato totalizzante, un’evasione che porta a vivere per lavorare perdendo l’equilibrio e il contatto con la realtà. Ma queste sono le attuali regole d’ingaggio: è una deriva che porta, talvolta, alla nascita di rapporti mobbizzanti tra datore e impiegato, con quest’ultimo costretto ad accettare ogni decisione, sennò è fuori».

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