Un’epoca è finita, anche le scarpe della Riviera del Brenta devono cambiare

A metà degli anni Novanta, i più celebri (forse) e bravi (di sicuro) produttori di calzature d’Europa, fecero una scelta chiara: volare alti, realizzare prodotti di gamma superiore, mettere a massimo frutto saperi e abilità. Ma oggi la stagnazione dei mercati costringe a ripensarsi di nuovo. E se l'approdo fossero le scarpe in plastica?

Un’epoca è finita, anche le scarpe della Riviera del Brenta devono cambiare

«Signori, poche chiacchiere e niente illusioni: un’epoca è finita, bisogna cambiare di nuovo».
Nella sala dove sono riuniti gli “scarpari” della Riviera del Brenta, convocati per l’assemblea annuale della loro associazione (Acrib), dal titolo significativo, “Restart”, cioè ripartire, si respira un’atmosfera di sconsolata responsabilità.
«Ma come? Dopo appena un paio di decenni dobbiamo ancora mutare il nostro posizionamento produttivo e di mercato?». Una faticaccia, non vi è dubbio, ma non ci sono alternative.

A metà degli anni Novanta, i più celebri (forse) e bravi (di sicuro) produttori di calzature d’Europa, fecero una scelta chiara: volare alti, realizzare prodotti di gamma superiore, mettere a massimo frutto saperi e abilità.
Molti di loro, proprio per questa opzione che inevitabilmente li proiettava in ambito internazionale, finirono nella rete delle grandi griffe mondiali, divenendo inevitabilmente dei terzisti: nobili, di lusso, ma pur sempre tali.
I grandi marchi francesi, a esempio, hanno smesso di produrre in patria e hanno pescato abbondantemente, quasi in totalità, nelle aziende della Riviera, trasferendo da questa parti la porzione più consistente della loro produzione e non solo. Griffe di rango stanno ora costruendo in Riviera i loro luoghi operativi, compresi gli ambiti commerciale.
Il risultato è stato che molti “scarpari” di fatto sono diventati dei terzisti, non qualunque, data la loro abilità e il pregio dei prodotti, ma pur sempre tali; altri invece hanno continuato a lavorare in proprio, scontrandosi con le difficoltà di affrontare il mercato globale e quello interno.

In un caso come nell’altro questo modello pare non tenere più. Lo dice chiaramente il professor Enrico Finzi, sociologo ed economista, quello che a suo tempo ispirò la scelta “alta” dei calzaturieri del Brenta.
Secondo lo studioso, la chiave di lettura decisiva è quella relativa al mercato internazionale. Che è in flessione, in inesorabile (momentaneo?) decadimento. Il panorama degli scambi mondiali è triste: nel 2016 si avrà un incremento soltanto del 7 per mille, una miseria. D’altra parte, dati provenienti da vari paesi del globo non lasciano molte speranze.
La Cina, a esempio, sta rallentando la sua corsa alla crescita; a questo si deve poi aggiungere il fatto che le autorità di quel paese hanno dichiarato guerra alla “corruzione” e soprattutto al lusso; ne sa qualcosa la Mercedes che ha visto i suoi profitti in terra orientale praticamente dimezzati; quindi il mercato del più grande paese del mondo per qualche tempo sarà un po’ ingessato.
Anche l’India sta rallentando, mentre i paesi arabi soffrono delle difficoltà causate dal tracollo del prezzo del petrolio.
In Europa si sa come vanno le cose: non è certo un momento di grandi consumi e di prospettive allettanti, neppure nella ricca Germania che sta segnando anch’essa il passo.
Dalle altre parti del mondo ci si muove tra sistemi un po’ protezionisti (vedi Sud America) e difficoltà dell’economia reale.
Vi è è poi l’Africa, potenzialmente una terra di grande risorse ma per il momento ancora tale, cioè un’opportunità inespressa, non in grado di attrarre e soprattutto consumare.
A tutto questo, a tale quadro internazionale, si aggiungono i recenti fatti politici, come la Brexit, i cui esiti sono al momento insondabili negli effetti, ma che certo non sarà positiva per gli scambi.
Rimangono gli Stati Uniti, che comunque sono un’economia “asfittica”, sostenuta più dagli interventi governativi in termini di occupazione che da un un’autonoma crescita.

Insomma per i nostri o per il paese, al di là dei facili ottimismi, si attendono almeno tre anni di non crescita.
Una condizione che si riflette a ricaduta sul alcuni beni, come proprio le calzature e gli accessori, per i quali i nostri connazionali, tanto per restare in casa, paiono disponibili a spendere sempre meno.
A questo si deve aggiungere il fatto che alcuni paesi (come la Cina) stanno ormai entrando nel mondo delle calzature con prodotti allineati agli standard di casa nostra: non con l’abilità dei maestri calzaturieri del Brenta, questo è sicuro, ma di certo hanno elevato di molto la qualità, attraverso due operazioni molto elementari: l’acquisizione di macchinari italiani e l’importazione di tecnici, di gente che ha portato e insegnato tecnica e abilità.
Non esiste più, tanto per completare il quadro, il consolidato vantaggio di andare a produrre all’estero.
Sempre in Cina, tanto per citare un caso, i salari sono cresciuti e le rivendicazioni “sindacali” stanno marciando; altri paesi non offrono grandi vantaggi competitivi, se si esclude forse il Bangladesh.

La situazione del mercato mondiale è dunque tale per cui occorre ripensare il posizionamento dei produttori di scarpe e di accessori della Riviera.
E allora, da che parte andare? Una cosa è certa: bisogna cambiare e soprattutto farlo in fretta.
Ci sono le aziende che si sono “affidate” alle grandi griffe internazionali: una situazione che ha garantito lavoro e fatturati, ma che ha anche portato ad alcuni pericoli più o meno già palesati.
Si tratta di fatto di una terziarizzazione in cui il margine di autonomia imprenditoriale (e di profitto) tende al basso, privilegiando caso mai il valore degli aspetti tecnici. Chi lavora “su commissione” è un esecutore, che mette a disposizione le proprie competenze, ma di fatto conta poco, se non nella precisione della qualità del prodotto e delle consegne. Un’agonia imprenditoriale, insomma.
Poi vi sono quelli che invece hanno continuato a perseguire la via in proprio, con un marchio, con una linea. Anche questi vivono la fatica di una sopravvivenza legata a difficoltà distributive, ai negozi monomarca, alla scomparsa di punti vendita diffusi.
Da che parte andare? La domanda non ha risposte certe, non esistono ricette puntuali; lo sa bene anche l’Acrib, ma questo non può esimere dal cercare, dal tentare.

Vi sono comunque alcuni punti (certi) da qui partire. Il primo. La necessità di svecchiare il parco imprenditoriale dei calzaturieri: «Da anni, qui, siamo sempre gli stessi» ammetteva un socio entrando nella sala dell’assemblea.
Il professor Finzi in proposito non ha dubbi: «Difficile che la rigenerazione arrivi dalla vecchia generazione». Spazio ai giovani dunque, coraggio nell’introdurre forze fresche, mentalità diverse, innovative. Non è facile, vista anche la cultura dei nostri “artigiani” delle scarpe, ma ci potrebbe essere un cuneo nel quale la novità, anche di età, potrebbe insinuarsi: la digitalizzazione, cioè l’approdo al mondo di internet, anche dal punto di vista commerciale, per sperimentare nuovi modelli distributivi.
Una prerogativa che non è definita dalla consistenza e dalla grandezza aziendale, a portata di mano anche dei più piccoli. Ma serve chi sappia fare questo ed è impensabile che tale operazione possa essere gestita da scarpari consolidati; quindi in tale ambito l’apporto delle nuove generazioni appare decisivo.

Vi è poi il tema del rapporto con il mercato della calzature. Che cosa chiede oggi il cliente?
I calzaturieri del Brenta sono da sempre attestati sul “classico”, magari creativo. Basta? Oppure bisogna valutare altre soluzioni, proposte diversificate. «Perché non pensare di costruire scarpe di plastica», afferma provocatoriamente il professor Finzi?
Insomma, la svolta appare inevitabile e su tutti i versanti: dalla gestione aziendale al prodotto, alle modalità di commercializzazione. Su questo i calzaturieri del Brenta si giocano il futuro, obbligati ancora una volta, anche loro, i più bravi, a rimettersi in discussione.

La fotografia del settore
I dati relativi al 2015 confermano che il distretto calzaturiero della Riviera del Brenta è uno dei segmenti produttivi più forti e vitali nel panorama aziendale veneto.
Il numero delle imprese (520 tra Padova e Venezia, comprensive di calzaturifici, produttori di accessori, modellisti) rappresenta il 70,3 per cento rispetto a quelle regionali del settore e il 10,5 della quota nazionale.
Il valore delle calzature realizzate in Riviera è pari al 52,7 per cento del fatturato realizzato nello stesso settore veneto e al 17 per cento di quello italiano.
Il sistema calzaturiero del Brenta, i calzaturifici, gli accessoriati, i modellisti e le ditte commerciali, realizza complessivamente il 57,9 per cento del fatturato del sistema regionale e il 18,1 di quello nazionale.
Lo scorso anno vi è stato un discreto incremento nel fatturato, che è passato da 1,7 miliardi di euro a 1,8, con una crescita di circa il 5 per cento. Buona anche la situazione della cassa integrazione per quanto riguarda le aziende che vi hanno fatto ricorso, mentre il numero delle ore è cresciuto di circa l’1,2 per cento.

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