Addio Pd, prigioniero del passato

Nato sulle ceneri di un Ulivo ostaggio (e vittima) delle antiche divisioni, il Pd ha rischiato la scommessa di far convergere i grandi filoni della tradizione politica riformista del Novecento in un progetto nuovo, che andasse oltre le parti. Vent’anni dopo, quella scommessa pare destinata al tramonto. Quale che sia il peso numerico degli abbandoni, il valore simbolico è così grande da cancellare gran parte della strada percorsa. Ma chiudersi nelle vecchie identità non aiuta a interpretare una società profondamente cambiata.

Addio Pd, prigioniero del passato

Citare il papa “a frammenti” e fuori contesto è sempre un azzardo.
E tuttavia guardando alla cronaca politica di questa ultima, convulsa, settimana viene quasi spontaneo cercare un sostegno, una chiave di lettura e di analisi richiamando uno dei quattro famosi postulati che Francesco espone nella Evangelii gaudium e recupera anche nell’enciclica Laudato si’: «Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma».

Questo, in fondo, ha voluto essere il Partito democratico per il centrosinistra italiano
Nato sulle ceneri di un Ulivo che aveva posto le premesse ma era rimasto una giustapposizione di “parti”, in perenne tensione e tenute insieme più dalla convenienza tattica e dalla personalità di Prodi che da una visione strategica di lungo periodo, il Pd ha rischiato la scommessa di far convergere i grandi filoni della tradizione politica riformista del Novecento in un progetto nuovo, che andasse oltre “le parti” per costruire un “tutto”.

Certo questo progetto è stato aiutato da situazioni contingenti
Deve molto alle regole del maggioritario – e non è forse un caso che tramonti o esca comunque fortemente indebolito nelle sue premesse proprio nel momento in cui sembra compiuto il ritorno al proporzionale – e altrettanto alla consapevolezza che il tempo dei partiti popolari di massa si andava ormai esaurendo sotto la spinta dei cambiamenti sociali.
Ma sulla contingenza ha saputo prefigurare un nuovo percorso, la cui efficacia è forse misurabile guardando a come la nascita del Pd abbia finito per costringere a un analogo cambiamento anche il centrodestra italiano.

Oggi, mentre una parte importante di quel progetto decide di proseguire in solitudine, rimane una domanda inevasa nei mille interventi, commenti, post su Facebook a cui tanti dirigenti di prima e di seconda fila vanno affidando il loro sconcerto, la loro rabbia, le loro speranze: che cosa non ha funzionato? Perché vent’anni di cammino comune si concludono con una parte riunita a cantare Bandiera rossa, un segretario evidentemente poco interessato a tenere insieme tutto il partito, una maggioranza che restituisce ancora una volta l’immagine di un coacervo di gruppi e gruppuscoli, ciascuno col suo leader e le sue tattiche?

La personalità di Renzi ha certo giocato un ruolo decisivo. Ma ridurre la scissione annunciata del Pd all’ostilità verso il segretario rischia di essere fuorviante.

La ragione più profonda mi pare da ricercare ancora nel difficile passaggio dalla “parte” al “tutto”, che avrebbe dovuto essere anche un passaggio generazionale. Chi ha guidato il processo all’inizio veniva da tradizioni politiche antiche, era carico di una forza identitaria che spesso ne aveva plasmato la vita in ogni aspetto. A quella generazione poteva essere chiesto il coraggio di prefigurare un futuro diverso – e per un tratto di strada lo ha avuto – non certo la freschezza necessaria a plasmarlo compiutamente.
Avrebbero dovuto aprire la strada a una nuova generazione, quella che oggi ha tra i 30 e i 40 anni, di “nativi democratici”, non più ostaggio di nostalgie, di “noi” e “loro”, ma capace di ritrovarsi concorde in una nuova identità del centrosinistra.

Così, con ogni evidenza, non è stato.
Certo in questi anni non sono mancati “giovani” saliti agli onori della ribalta, specie nel campo renziano, ma una nuova classe dirigente del Pd, affrancata da identità e bandiere del tempo che fu, non si è vista.
Di più: i rimescolamenti di posizione tra “ex Ds” ed “ex Dc” sono stati rari, e i mille tentativi di amalgamare le tradizioni passate in un nuovo disegno culturale, di disegnare una precisa fisionomia, di mettere mano a una “carta dei valori” credibile e praticata, sono miseramente falliti.
E la conseguenza è stata che in troppe questioni – dal lavoro alla scuola, dai temi eticamente sensibili alle politiche energetiche, ma anche riguardo all’organizzazione del partito, alle primarie, alle regole congressuali – abbiamo visto riesplodere ciclicamente le tensioni e riemergere posizioni che solo con giochi di prestigio retorici si poteva definire normale convivessero in un unico partito.

Il progetto è stato generoso, appassionato, capace di parlare ai cittadini con efficacia. Perfino vincente a tratti nelle urne.
E tuttavia lo sforzo culturale non è stato all’altezza della sfida, ed è soprattutto per questo che le identità forti del passato sono riemerse. Sul breve periodo, garantiscono quel calore umano, di affetti, di memorie condivise che il Pd fatica sempre più a trasmettere. Magari offrono anche linee operative e un orizzonte culturale chiaro in cui riconoscersi. E chissà, per un gioco di regole elettorali potrebbero perfino restituire buoni risultati.

Per molti, sono traguardi sufficienti o punti d’inizio di una nuova stagione.
A noi sembrano un capolinea triste – quale che sia poi la consistenza numerica degli abbandoni, il gesto simbolico ha una sua forza indubbia – che riporta il centrosinistra al punto di partenza e lascia l’intero sistema politico del nostro paese indebolito in un punto di riferimento essenziale, non foss’altro perché esprime il presidente del consiglio e governa la gran parte delle regioni italiane.

Il coraggio di “rischiare l’altro” – spiegava il direttore scientifico della fondazione Lanza Lorenzo Biagi in un bell’incontro alla scuola di formazione all’impegno sociale e politico della diocesi – è il tratto che distingue le comunità chiuse da quelle aperte. E la storia insegna che sono le seconde, non le prime, ad aver successo. Perché l’incontro con l’altro ci cambia e, pur tra mille fatiche, ci arricchisce. Vale per la società, vale a maggior ragione per i partiti che quella società si candidano a interpretare e guidare.

Prima o poi ci sarà un congresso.
A quel punto, se una generazione “democratica” in qualche modo ha messo radici in questi anni, trovi la strada per uscire da questo tunnel senza uscita. Farà del bene al centrosinistra, e all’Italia intera.

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