Basta attese. Riconosciamo il male profondo della tortura

Con 195 voti a favore, 8 contrari e 34 astenuti, l'aula del Senato ha approvato la legge che introduce nel codice penale il reato di tortura, che ora passa alla Camera per una quarta lettura. Un rimpallo continuo che sembra non avere fine. È tempo dunque che se ne parli, che la società civile partecipi al dibattito e sia consapevole che il problema ha un profilo etico, oltre che politico e giuridico.

Basta attese. Riconosciamo il male profondo della tortura

Sono trascorsi diversi anni da quando l’Italia ha ratificato la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ma la tortura nel nostro paese non è ancora reato.
Nell’aprile del 2015 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001, dove secondo i giudici le azioni della polizia ebbero “finalità punitive” e si configurarono come una vera e propria “rappresaglia” atta a incutere umiliazione e sofferenza fisica e morale alle vittime.
La Corte in tale contesto ha parlato di “tortura” e ha invitato l’Italia a «dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte».

La sentenza di Strasburgo, come era da attendersi, ha riaperto il dibattito e portato a un’accelerazione, seppure temporanea, della discussione di un nuovo disegno di legge in parlamento.
Associazioni e osservatori chiedono da tempo leggi più chiare su questo tema, anche alla luce di quanto avvenuto con i casi Cucchi, Aldrovandi, Uva.

È tempo dunque che se ne parli, che la società civile partecipi al dibattito e sia consapevole che il problema ha un profilo etico, oltre che politico e giuridico. La comunità cristiana da parte sua non può ignorare che Gesù di Nazareth non fu ucciso, bensì crocifisso, cioè torturato.

Ma andiamo per ordine e chiariamo anzitutto cosa s’intende per tortura.
In ambito giudiziario si parla di tortura in riferimento a ogni forma di coercizione fisica o morale che abbia lo scopo di estorcere confessioni o dichiarazioni. In ambito non giudiziario la definizione si allarga fino a includere tutta una serie di dolori, sofferenze e molestie gravi, soprattutto se prolungate, che magari non finiscono davanti a un giudice o sui giornali, ma non per questo le possiamo ignorare e tanto meno derubricare assegnandole alla voce tolleranza o rassegnazione.

Già a partire da questo primo accostamento lessicale si può intuire quanto sia difficile valutare un fenomeno dai molti volti, tutti diversi l’uno dall’altro, che ovviamente condanniamo, ma in termini quasi sempre generici e poco argomentati.
Gli argomenti che di solito si adducono in ambito giudiziario si possono ridurre fondamentalmente a due: l’inaffidabilità delle confessioni che si estorcono e il misconoscimento del diritto di difesa da parte dell’imputato. Cesare Beccaria sosteneva che la tortura è il mezzo più sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Era un modo per dire che la tortura non è certo il metodo più adatto per investigare,peraccertare la verità dei fatti. A volte o anche spesso, pur di sottrarsi alla tortura, l’imputato potrebbe arrivare ad accusare falsamente se stesso o anche altri.

In sede non giudiziaria la valutazione del fenomeno è ancora più difficile, tanto sono varie e complesse le “torture” cui sottoponiamo persone a noi vicine o affidate alla nostra responsabilità.
Quante offese, insulti, dispetti, mutismi ingiustificati, musi lunghi, soprattutto in ambito familiare, per non parlare di percosse, abusi sessuali, stupri, femminicidi, ecc.
E in ambito sociale quante volgarità, molestie, ricatti, bullismi, ritorsioni, persecuzioni, omicidi, e chi più ne ha più ne metta.

Tanti appelli a volersi bene, ad amarsi, a promuovere solidarietà, rispetto, tolleranza, sembra non abbiano avuto molto peso nel corso della storia. E se anche oggi si continua a infierire contro il proprio simile, significa che il male è molto più profondo di quanto non si sospetti o si sia disposti ad ammettere.

Conoscere, ma soprattutto riconoscere, i propri limiti e le proprie inclinazioni potrebbe essere un primo passo nella direzione di un maggiore controllo di se stessi e di un investimento più razionale e costruttivo della propria aggressività.
Che, non dimentichiamolo, è una forza, una risorsa, non necessariamente un male. Potrebbe aiutare molto anche lo sviluppo di una certa empatia o capacità di identificarsi con l’altro, di immaginare, di percepire in noi stessi il suo dolore, la sua sofferenza.

Potrebbe essere di grande aiuto anche la contemplazione del Crocifisso, un’immagine, un simbolo, che ha accompagnato per secoli la nostra civiltà, ma di cui raramente si comprende a fondo ciò che rappresenta: la nostra possibilità, a differenza degli animali, non solo di fare del male, di uccidere, ma anche di infierire contro il proprio simile, in una parola di torturare.

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