Dalla tolleranza all'ascolto autentico

I sempre più frequenti contatti con persone di altre culture ingenerano non raramente un preoccupato senso di smarrimento, indotto anche dal timore che i costumi più radicati della propria eredità culturale saranno inevitabilmente compromessi dalla forzata coabitazione con chi è portatore di un bagaglio di tradizioni alternative.

Dalla tolleranza all'ascolto autentico

Nel porre l’importante questione delle modalità più appropriate per una pratica interculturale, sembra che la risposta consista nell’avvio di uno sforzo quasi titanico in funzione dell’incontro tra le culture, sforzo almeno altrettanto imponente dell’opposto “scontro delle civiltà”.

È invece mia convinzione che la pratica del dialogo interculturale richieda un primo passo in tutt’altra direzione. Non è difficile anzitutto rilevare che l’immagine pur grandiosa di una molteplicità di aree culturali che si incontrano (o scontrano) non corrisponde affatto a quanto accade nella realtà. A incontrarsi sono infatti sempre e soltanto le persone che, singolarmente o in gruppo, fanno esperienze più o meno riuscite di relazione con chi è culturalmente altro.

Non meno importante è sottolineare che l’avvio di una genuina esperienza interculturale non è ascrivibile ad alcun potente dinamismo, ma piuttosto alla capacità e volontà di fare spazio all’altro, di ospitarlo nella sfera della propria esperienza.

Tale pratica ospitale è espressa propriamente nella inclinazione a dare ascolto allo straniero.
Solo coloro che, al posto di accingersi a un immaginario incontro o scontro con tradizioni culturali remote, prestano pazientemente ascolto a chi incarna tali “mondi di vita”, sono nella condizione di attivare un dialogo interculturale.

Notiamo che lo stile di ascolto è senz’altro centrale nella vita del cristiano: esso dispone all’accoglienza tanto della Parola di Dio – «La fede viene dall’ascolto», insegnava san Paolo (Rm 10,17) – quanto dell’invocazione del fratello più bisognoso.
Non a caso papa Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) aveva osservato che al principio di ogni relazione dialogica, e in specie del «dialogo della salvezza» (colloquium salutis), «bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo».

La nostra epoca ha lasciato alle spalle una fase ancora incompleta di accoglimento dell’altro corrispondente all’esercizio della semplice tolleranza, mentre oggi siamo chiamati allo sviluppo di questo stadio embrionale di incontro.

Tollerare implica ancora una prospettiva unidirezionale di chi ha quantomeno raggiunto la consapevolezza che anche l’altro ha dei diritti inalienabili fondati su ciò che è comune, ossia sulla dignità intrinseca a ogni uomo. Ma in questo tempo di globalizzazione avanzata ciò non appare più sufficiente.

Siamo invero sempre più pungolati dall’estraneo a riconoscerlo anche nella sua diversità, spesso irriducibile a unità sinfonica. Tutto ciò corrisponde – notava il recentemente scomparso teologo domenicano Claude Geffré – al principio biblico secondo cui «il dissimile riconosce l’altro, l’estraneo, nella sua differenza», regola fondamentale in funzione di un dialogo animato dal reciproco rispetto.
È appunto attraverso l’ascolto della alterità dell’altro che sono poste le condizioni di base per un vero “dialogo della salvezza”. Si può quindi sostenere che la cultura del dialogo, educata all’ascolto, ha il suo inizio in un “altrove”.

Enrico Riparelli

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