Il futuro del welfare richiede più inclusione e più integrità

Non avere un lavoro, un posto dove vivere, non essere nelle condizioni di garantire alla propria famiglia un futuro materialmente dignitoso, significa esporsi alla dipendenza, intesa come sudditanza politica, economica, sociale e culturale. È su questo terreno che il futuro del welfare si lega indissolubilmente al contrasto alla corruzione nelle istituzioni politiche ed economiche.

Il futuro del welfare richiede più inclusione e più integrità

Nella prospettiva del magistero di Francesco e del suo ripetuto appello per un’economia sociale di mercato – il cui tratto caratteristico è la vocazione sociale dell’attività economica che trae, a sua volta, la propria ragion d’essere nel riconoscimento della centralità della persona e della sua natura relazionale, alla base della dottrina sociale della Chiesa – le recenti relazioni del presidente dell’Inps Boeri e del presidente dell’Anac Cantone possono essere lette l’una alla luce dell’altra.
C’è infatti un filo rosso che lega il destino del nostro welfare a quello della lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione e che ci spinge a riconoscere nelle parole del Pontefice non solo una stravolgente portata innovativa ma la stessa trasversalità del concetto di inclusione – da declinarsi non solo in termini socio-economici ma anche istituzionali – nel modello di sviluppo economico integrale proposto dal magistero sociale.

Il futuro del welfare e quindi delle istituzioni preposte alla protezione sociale, sia in Italia che in Europa, rappresenta una delle grandi incognite del nostro tempo.
È in crisi l’elemento che più di tutto ha segnato l’evoluzione dei sistemi democratici, influenzandone le dinamiche istituzionali e della rappresentanza e, di conseguenza, quelle economiche e sociali.

Non a caso, il presidente dell’Inps ha evidenziato come un ingrediente chiave del successo dei partiti populisti sia proprio il loro saper dar voce all’insoddisfazione di molti cittadini che non si sentono adeguatamente protetti dai rischi del mercato del lavoro, derivanti sia dal timore che le loro competenze vengano rese obsolete dal progresso tecnologico e dall’automazione, sia dalla preoccupazione che il loro posto venga spostato nei Paesi in cui è più basso il costo del lavoro.

Innanzi a tali esigenze di protezione, la possibilità di fornire risposte attraverso il solo intervento pubblico appare sempre più irrealistico.
Sia perché lo Stato non è più in grado di governare completamente il fenomeno economico, i cui confini travalicano ormai ampiamente quegli degli Stati nazionali, sia perché l’evoluzione tecnologica e le dinamiche concorrenziali che da essa derivano fuoriescono completamente dalle possibilità di intervento dei governi.
Non solo, l’intervento pubblico nel settore del welfare presuppone l’utilizzo di risorse finanziarie derivanti principalmente dal prelievo fiscale il quale, tuttavia, agisce come una potente leva in campo economico, incentivando o disincentivando gli investimenti produttivi e producendo rilevanti ricadute in termini economici ed occupazionali.

È innegabile, tuttavia, che in determinati momenti storici sia necessario orientare gli strumenti di welfare verso interventi strutturali e universalistici capaci di supportare l’evoluzione della società e i processi di riallineamento competitivo.
Tali politiche solitamente definite come “di inclusione” (che si risolvono però solitamente nell’erogazione di sussidi economici in favore di talune classi sociali), oltre che legate a valutazioni di costo-opportunità connesse alle conseguenze sul sistema economico del ricorso alla leva fiscale, ovvero, della riallocazione di parte della spese pubblica, trovano (o almeno dovrebbero trovare) nel rispetto della dignità umana (e della dignità del lavoro) un vincolo insuperabile.

Includere, ce lo ha ricordato Francesco durante la recente visita all’Ilva di Genova, non significa trasformare i poveri in assistiti, bensì far sì che sia consentito a ciascuno – secondo le proprie capacità, abilità e disponibilità – di partecipare al processo di creazione del valore, percependo un reddito capace di consentire per se stessi e per la propria famiglia una esistenza dignitosa, innescando quel processo di inclusione sociale che rappresenta il motore di una sana economia sociale di mercato.

È evidente dunque come la risposta a tali istanze di protezione non possa ridursi al solo intervento pubblico.
Esso è certamente auspicabile in talune circostanze, ma solo in via sussidiaria, a patto di non determinare un blocco della società o di tradursi in un ostacolo alla cooperazione umana e all’inclusione sociale, che rappresentano invece la vera leva per uno sviluppo economico integrale, unica risposta possibile al bisogno di protezione dei cittadini.

Accanto alla povertà materiale c’è, infatti, un’altra povertà che andrebbe ugualmente combattuta in quanto logico presupposto della prima: quella che crea dipendenza dagli altri, che non consente l’esplicarsi della libera e responsabile soggettività creativa della persona umana, inibendo lo spirito di iniziativa, il senso di responsabilità e lo spirito di partecipazione alla costruzione di una società animata da una cultura civile, argine e baluardo alla perenne tentazione di chi detiene il potere e pretende di esercitarlo in modo assoluto e arbitrario.
Non avere un lavoro, non avere un posto dove vivere, non essere nelle condizioni di garantire alla propria famiglia un futuro materialmente dignitoso, significa esporsi alla dipendenza – intesa come sudditanza politica, economica, sociale e culturale – che rappresenta una delle prime cause di sottosviluppo e di povertà.

È su questo terreno che il discorso sul futuro del welfare si lega indissolubilmente a quello del contrasto alla corruzione nelle istituzioni politiche ed economiche.
Perché ciò che le accomuna, generando un clima di incertezza e sfiducia, è – per usare le parole di Francesco – la pervasività di una mentalità di corruzione pubblica e privata che si traduce in una cornice istituzionale di tipo estrattivo, in un disvalore che è certamente un freno allo sviluppo economico e sociale e, nei casi più gravi, una causa strutturale di sottosviluppo e povertà, anche nei contesti di maturità economica.
Il generale impoverimento del ceto medio e la crescita delle disuguaglianze non possono dunque essere affrontati solo attraverso l’erogazione di sussidi economici o le politiche assistenziali. Sarebbe come voler bloccare un corso d’acqua con un muretto a secco piuttosto che con una diga.

Francesco ci sprona piuttosto a comprendere le radici antropologiche e morali del fenomeno, guardando a quell’ecologia umana integrale che lega Francesco a Giovanni Paolo II e, quest’ultimo, a Benedetto XVI, creando le condizioni per rafforzare quel bene morale rappresentato dalla fiducia (che emerge dalla condivisione, da parte di un popolo e delle sue istituzioni, di valori etici e culturali comuni) e il paradigma della reciprocità, entrambi elementi fondanti di una società giusta, orientata al bene comune.

Nelle economie sviluppate, proprio la qualità delle istituzioni rappresenta la principale leva dello sviluppo economico e sociale.
A esse spetta il compito di spezzare le catene che legano le oligarchie alle istituzioni e, dalla cui esistenza, deriva la spirale estrattiva e speculativa che distrugge ricchezza anziché crearla.
Per questa ragione il dibattito sulla lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione è così importante e ormai improcrastinabile. Non si tratta solo di sanzionare il comportamento scorretto di taluni funzionari infedeli, ma di innescare una nuova cultura delle istituzioni imperniata sui concetti di integrità e inclusione.
Ne va delle nostre prospettive di sviluppo economico e della sostenibilità stessa del nostro sistema di protezione sociale.

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Parole chiave: welfare (91), inps (24), boeri (7), cantone (5), corruzione (57), inclusione (37)
Fonte: Sir

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