Ius soli e cittadinanza. C'è un’identità da ri-plasmare

Alunni, insegnanti e famiglie troveranno da qui a pochi giorni una scuola che continua a “dimagrire”: l'Italia invecchia, in tre anni ha perso centomila studenti, e al calo demografico si aggiunge la crescita degli alunni stranieri che sono ormai più di 800 mila.
Nelle classi si specchia il volto dell'Italia. E guardando alla scuola si comprende l'urgenza di affrontare il tema della cittadinanza.

Ius soli e cittadinanza. C'è un’identità da ri-plasmare

La nostra scuola è lo specchio dell’Italia di domani.
Ed è un’Italia multietnica e multiculturale, quella che i nostri figli già sperimentano ma che noi fatichiamo ancora a metabolizzare, per ragioni culturali e anagrafiche. 

L’interrogativo che la scuola ci rimanda è allora tanto semplice quanto delicato, e viene prima di ogni soluzione tecnica: cosa significa, oggi, “essere italiani”? E cosa significherà per i nostri figli quando saranno adulti?

A quale idea di nazione, di popolo, di comunità civile rimanderà? A quale storia condivisa? E come si sposa l’identità italiana con le appartenenze plurali che pure ci contraddistinguono, a partire da quell’orizzonte europeo in cui non molti anni fa riponevamo tante speranze?

Su questo, va detto con onestà, poco è stato elaborato.
E se c’è una ragione fondata che i critici dello ius soli possono portare a sostegno delle loro tesi, è qui che andrebbe cercata e non certo nel rischio di alimentare il pericolo terrorista allargando le maglie della cittadinanza: anche in questo caso, la politica italiana non ha saputo ancora produrre un dibattito e un pensiero all’altezza della sfida.
Che è cruciale, ma non solo per i numeri che la caratterizzano.

A ben vedere, anche in tempi ormai alieni da ogni retorica risorgimentale, serve delicatezza a “maneggiare” i sentimenti profondi e i simboli di un popolo. 

Le identità non si creano a tavolino, non sono prodotti da ingegneria genetica. Sono frutto della storia, si plasmano nel tempo e sollecitano con la razionalità anche il cuore, la memoria.

Ecco perché non sopportano scorciatoie né semplificazioni, ma nemmeno possono accettare un supino lassismo.
Il problema infatti è di fronte a noi in tutta la sua urgenza e ha il volto di centinaia di migliaia di ragazzi che soffrono di una identità sospesa: sono nati in Italia ma non le appartengono formalmente, in bilico tra una cittadinanza familiare in cui non possono pienamente identificarsi per ovvi motivi e una cittadinanza di fatto che l’Italia però non riconosce.

Basta una legge nuova? Per quanto perfetta possa essere, io credo di no.
Ad accompagnarla, serve il coraggio di affrontare nel profondo la questione della nostra identità nazionale e, in questo, proprio la scuola può avere un ruolo fondamentale perché quel che studiamo – e la stessa organizzazione scolastica – ci plasmano nel profondo, definiscono il nostro immaginario, prospettano il futuro.

È già avvenuto in passato, e in passaggi non meno delicati: alla scuola delle “maestrine dalla penna rossa” i Savoia hanno affidato buona parte del compito di “fare gli italiani” una volta “fatta l’Italia”. Alla scuola, con la riforma promossa dal padovano Gui, un centrosinistra agli albori ha affidato il compito di dare concretezza al dettato costituzionale e superare l’impianto idealista ereditato dal fascismo.

Anche oggi, non potrebbe partire proprio dalla scuola – e parallelamente dal mondo culturale nel suo senso più ampio, dalle realtà impegnate nella società civile, dalle chiese, dalle tante associazioni protagoniste della campagna “L’Italia sono anch’io” – una riflessione profonda sugli “ingredienti” che definiranno l’essere e il sentirsi italiani da qui a un paio di generazioni?
Forse potrebbe aiutare, specularmente, guardare anche alla nostra esperienza di emigrazione: cosa significa dichiararsi “anche” italiano per chi è nato in New Yersey, a Stoccarda, a Nantes, a Caracas? Non potremmo trovare lì risposte utili per capire come plasmare un’Italia fatta “anche” da ragazzi nati nel nostro paese ma da famiglie pakistane, marocchine, rumene?

Se poi arriverà la legge che il premier Gentiloni continua a definire «una battaglia di civiltà», ma per la quale non sembra disposto a immolarsi, ben venga. Altrimenti, non si creda di avere risolto con la fine della legislatura il problema, né di poterlo nascondere sotto il tappeto come la polvere.
La definizione di un’identità nazionale è un processo lungo, complicato, un cantiere mai veramente concluso ma che procede per stralci. Sempre che lo si voglia, per l’appunto, affrontare.

Altrimenti, possiamo continuare a immaginare (e gestire) l’Italia come un paese in cui risiedono alcune decine di comunità straniere, più o meno numerose, più o meno stabili ma comunque ospiti.

Oppure possiamo iniziare a immaginarla (e gestirla) come il frutto di una progressiva fusione tra popoli e culture che scelgono di abitare una terra, di condividere il proprio destino, di elaborare una nuova storia comune entro l’orizzonte culturale e civile definito dalla Costituzione.

Tensioni e frizioni ci saranno in entrambi i casi, ma la scelta va fatta.
Meglio, a nostro parere, affrontarla dosando le forze, senza strappi, ma senza nemmeno tenere lo sguardo fisso a un’Italia che fa ormai più parte dei ricordi che del domani.

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