La brocca d'acqua che serve alla vita dell'uomo

Un esercizio critico quasi divertente (o irriverente?), mi induce a ribaltare una terminologia che si è ampiamente imposta, non certo il significato che essa sottende: la vita oggi non è “liquida”, viviamo invece una modernità arida. Ciò che più decisamente la qualifica non è una sovrabbondanza, ma un’assenza. Assenza di un’acqua capace di dissetare. L’esistenza oggi è spesso aridità.

La brocca d'acqua che serve alla vita dell'uomo

“C'è una brocca di alluminio. Di quello antico, buono e lucente. Il manico è rotto. Ma le conferisce un aspetto di antichità. Vi hanno bevuto gli undici figli da piccoli a grandi. Essa ha accompagnato la famiglia nei molti traslochi. Dalla campagna al villaggio. Dal villaggio alla città. Dalla città alla metropoli. Ci furono nascite. Ci furono morti. Prese parte a tutto. Venne sempre con noi. È la continuità del mistero della vita nelle diversità delle situazioni di vita e di morte. Essa rimane. (…) Non per saziare la sete del corpo. Questa, tante acque la saziano. Ma la sete dell'archetipo familiare, la sete dei penati paterni, la sete fraterna, archeologica, delle radici da dove viene la linfa della vita umana... È per gustare il mistero che la brocca contiene e significa”. (Leonard Boff, I sacramenti della vita)

Un esercizio critico quasi divertente (o irriverente?), mi induce a ribaltare una terminologia che si è ampiamente imposta, non certo il significato che essa sottende: la vita oggi non è “liquida”, viviamo invece una modernità arida.
Ciò che più decisamente la qualifica non è una sovrabbondanza, ma un’assenza. Assenza di un’acqua capace di dissetare. L’esistenza oggi è spesso aridità.

Abbiamo bisogno – come suggerisce il suggestivo scritto di Leonard Boff – d’una brocca d’acqua speciale che sappia dissetarci e nutrire un terreno ammutolito che vuole rivivere, rigenerarsi e rigenerare. Bisogno attuale e antico: già in Ezechiele (37: 1-10) appare il quadro di un muto paesaggio abitato da ossa inaridite. Un paesaggio desolato, privo di sole, orfano di luce. Auschwitz davvero si riaffaccia e ripercorre ogni epoca riproponendo scenari che rimbalzano di stagione in stagione e lanciano interrogativi inquietanti anche sul domani.

Soltanto il fluire di un soffio sacro è in grado di riportare energia e movimento: può passare qualcosa-Qualcuno che sa intuire la vita pur nell’ammasso di scheletri e rifecondare la terra desolata. Ma chi sa aprire la porta a questo straniero che bussa?

Abbiamo proprio bisogno di una brocca che ci consegni un’acqua-sacramento capace di alludere ad altro e di scombinare percezioni stagnanti.
Forse il modo propriamente umano di stare al mondo è proprio questo scombinare e oltrepassare la pura visione di un’immobilità amorfa, di un’aridità impermeabile, per cogliere e far trionfare l’anima più nascosta e silenziosa degli spazi e dei tempi. È andare alla radice delle cose e al di là delle cose, attraverso le cose, cogliendo di esse quella dimensione di mistero che trascende la loro datità. È saper attingere a una fonte profonda, a un’acqua che non è soltanto la combinazione chimica di due atomi di idrogeno e di uno di ossigeno. La formula dell’esistenza è più ricca, complessa e profonda di una mera composizione quantitativa, né bastano le lenti di un microscopio, per quanto potenti, a coglierne la grandezza e i significati.

Darle senso implica inoltrarsi negli itinerari del mistero, nella lotta e nell’abbraccio senza fine di tenebra e luce, che, così giocando, si distinguono e si abitano. Implica pure viaggiare nei territori dove né la tenebra né la luce risultano vincenti, dove si distende l’ombra delle cose, che sempre allude ad altro. Implica, in questo nomadismo, riconoscersi e ritrovarsi progetto, cantiere aperto, costruzione viva.

Per spiare il mistero – l’intima spiritualità del mondo, delle cose, di noi stessi – abbiamo bisogno di attraversare le stratificazioni apparenti e resistenti dell’empirico e di incontrare l’invisibile sotto la maschera del visibile, della materia, della corporeità.
Abbiamo bisogno di sfidare il buio, di percorrere attimi ed epoche notturne, dando senso perfino all’incedere dell’oscurità più nera, per cogliere finalmente l’irrompere di un raggio di luce capace di vincere quel tempo morto e di far esplodere il giorno. Abbiamo bisogno di cercare qualcosa di sempre eccedente e spregiudicato rispetto al consolidato recinto della razionalità, del risaputo e dell’abitudinario, consapevoli che perfino il muro più spesso presenta fenditure sottili attraverso le quali penetra il mistero.

Abbiamo bisogno, in fin dei conti, di un’umile brocca d’acqua non tanto per dissetarci dopo le nostre presuntuose e stancanti imprese quotidiane, quanto per scoprire e gustare qualcosa che sta al di là della brocca stessa e le conferisce valore, significato.
Attraverso la povera materialità di questa brocca si può attingere ad un mondo che va “oltre”, che apre ad altri orizzonti, ad altre intuizioni, ad altre comprensioni. Si spalanca un infinito, un mare di significati e di provocazioni. Lì possiamo probabilmente ritrovarci.

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