La lezione delle primarie

La vittoria di Matteo Renzi alle primarie del Pd era data per scontata un po' da tutti, a partire da quella fetta di apparato che un anno fa lo considerava un estraneo alla storia del partito e adesso – convintamente o strumentalmente – lo ha appoggiato con entusiasmo.

La lezione delle primarie

Molto meno scontata era la proporzione del successo, dopo che tra gli iscritti aveva sì vinto ma senza superare il cinquanta per cento dei voti. Domenica scorsa, però, hanno votato quasi tre milioni di italiani e la differenza tra i candidati è stata abissale. In questo “voltare pagina” del principale partito italiano, comunque lo si giudichi, sono numerosi gli spunti di riflessione e non riguardano solo il Pd ma l'intera politica del nostro paese.
Di fatto le primarie, nel giro di pochi anni, si sono trasformate da grande festa di popolo per la ratifica plebiscitaria delle scelte del partito (Prodi e Veltroni) a strumento di “rottamazione” di una intera classe dirigente, che non ha avuto il coraggio di prendere atto dei suoi ripetuti fallimenti e di passare spontaneamente la mano a nuovi leader. Non è solo questione di D'Alema, Bersani o degli altri leader più influenti: di fatto l'enorme differenza tra il voto dei tesserati e quello degli elettori certifica la distanza e l'insofferenza verso una intera classe dirigente, che ancora controlla sezioni semivuote ma non viene più ascoltata e seguita dalla gente che dovrebbe rappresentare.
Sarebbe utile avere la controprova dello smottamento in corso guardando anche altrove – ad esempio nell'elettorato di centrodestra alle prese con la scissione di Alfano, o in quello che aveva scommesso su Scelta civica e sta assistendo malinconicamente alla sua liquefazione – ma lì le primarie nemmeno si sa cosa siano. Onore dunque al Pd, e tuttavia la soddisfazione per la grande partecipazione al voto non deve far perdere di vista questo dato, che si va a sommare alla sostanziale delegittimazione di un parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale.
Lo scarto tra paese reale e istituzioni si va allargando, ogni settimana di più. Ci si renda conto che non c'è più tempo e che non bastano tavoli, comitati, progetti. Servono, subito, le riforme che tutti a parole dicono di volere: legge elettorale, parlamento, costi della politica. Poi, certo, bisognerà mettere mano alla politica economica e fiscale di un paese che ormai è in ginocchio, ma è fondamentale iniziare dall'architettura istituzionale e dall'immagine che la classe dirigente vuol dare di sé. Sperando che basti, almeno a ristabilire quel minimo di fiducia necessario per evitare derive incontrollate. Va bene la rabbia, ma rendiamoci conto che non saranno i forconi (e nemmeno gli scioperi generali) a salvare l'Italia.

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