La verità non è un algoritmo

L’ultimo allarme in ordine di tempo è venuto dal sito americano Buzzfeed e dal New York Times, che hanno denunciato il pericolo di inquinamento del clima politico da parte di una galassia di siti internet e profili Facebook e Twitter colpevoli di alimentare campagne di disinformazione e produrre vere e proprie “bufale”. Questi siti sarebbero riconducibili secondo le due testate ad ambienti vicini alla Lega Nord e ai 5 Stelle.

La verità non è un algoritmo

Mentre i 5 Stelle ribaltano le accuse, il segretario del Pd ha annunciato che ogni 15 giorni sarà pubblicato un rapporto per smascherare le fake news. Non solo: Marco Carrai, esperto di sicurezza informatica molto vicino a Renzi, ha annunciato di essere al lavoro per un “algoritmo verità”, «che tramite l’intelligenza artificiale riesca a capire se una notizia è falsa». Ma è davvero questo di cui abbiamo bisogno?

Possono i social media, a partire da Facebook, influenzare i comportamenti degli italiani, e in particolare il loro voto?
Quella che in questi giorni abbiamo sentito ripetere in maniera quasi parossistica è, in realtà, una domanda puramente retorica. Certo che possono, anzi già lo fanno. E lo faranno sempre di più, per la semplice ragione che un numero in continua crescita di italiani si informa oggi prevalentemente, se non esclusivamente, attraverso questo canale.

Se una volta ci si preparava al voto seguendo Tribuna elettorale in televisione, andando ai comizi in piazza, leggendo con costanza un giornale, oggi tantissimi si accontentano dei post pubblicati su Facebook. È un cambiamento, vale la pena ricordarlo, che non riguarda solo la politica. Se la celebre università Bocconi ha promosso da poco una scuola per influencers – vale a dire quelle figure che dai loro profili social ci spiegano come vestirci, quali accessori sono più cool e via elencando – significa che la politica arriva buon ultima in un campo già diventato terreno di lotta per il controllo dei nostri acquisti e dei nostri stili di vita.

Certo, anche in passato l’utilizzo dei mass-media è stato fondamentale per orientare l’opinione pubblica.
Tutti i movimenti politici del Novecento hanno investito fiumi di denaro e specchiate intelligenze nel promuovere giornali, radio, televisioni parallelamente alla loro organizzazione sul territorio in sezioni, movimenti giovanili, associazioni amiche. E di fake news, come va di moda chiamarle adesso, di notizie ritoccate ad arte, di demonizzazioni, di campagne strumentali è piena la storia.

Cosa sta cambiando allora rispetto al passato? È solo una questione di strumenti, della loro efficacia e pervasività?
A ben guardare, il clamore suscitato dalla vicenda è sintomo di un cambiamento epocale che si è andato dipanando sotto i nostri occhi nel giro di pochi anni, e di cui oggi iniziamo ad avvertire gli effetti senza avere strumenti adeguati per contrastarli. Quel che è successo è che internet ha fatto saltare senza colpo ferire un sistema che per secoli si è basato su una chiara divisione: da un lato pochi produttori dell’informazione, dall’altra il pubblico destinato a riceverla.

I nostri genitori potevano scegliere quale giornale comprare o quale tg ascoltare, ma la loro “capacità di reazione” rispetto ai fatti del giorno non andava oltre il commento con gli amici o la discussione in ufficio. I nostri figli hanno di fronte uno scenario ben più articolato: possono condividere una notizia, commentarla, ma anche creare un loro sito internet e passare così dall’altra parte della staccionata: non più fruitori ma produttori di informazione, senza la necessità di investimenti economici proibitivi, senza dover sottostare a ordini professionali, spesso senza nemmeno conoscere le leggi in materia.

Fin qui abbiamo decantato i pregi di questo nuovo sistema aperto, la sua capacità di moltiplicare le voci, la creatività che ha stimolato.
Lo abbiamo anche visto come uno spazio di libertà, contrapposto a un sistema dei media “ufficiali” la cui credibilità è in picchiata anche perché sono evidenti le sue commistioni con i potentati economici e gli interessi politici.

Volendo semplificare, ci siamo illusi che ci fosse da un lato l’informazione di regime, ostaggio delle caste e dei giornalisti al loro servizio; dall’altro, la vera libertà di poter dire tutto, anche quel che il potere vuole nascondere ai cittadini. Oggi scopriamo che le cose non stanno proprio così. E che anzi un mondo per sua natura allergico alle regole come internet è l’ambiente perfetto per chi vuole inquinare le acque: sostituendo il vero col verosimile, diffondendo notizie false, giocando sulla nostra disattenzione o sulle nostre paure.

Come rispondere a tutto ciò? L’idea che possa esistere un “algoritmo della verità”, che si possa cioè delegare a un computer l’analisi della veridicità di una notizia, mi pare scenario peggiore del male.
È nei regimi dittatoriali, che la verità è sancita per legge.

Nelle società democratiche, esiste solo una strada possibile, ed è quella di investire in cultura, educazione, consapevolezza.
Un po’ come avvenne con le “maestrine dalla penna rossa” a inizio Novecento o con la scuola media unica negli anni Sessanta, oggi serve una vera campagna di alfabetizzazione digitale di massa che ci aiuti a muoverci con padronanza in questo nuovo mondo, perché non si è pienamente cittadini se non si è in grado di esercitare un voto responsabile e informato.

Per quanto faticosa sia, la ricerca della verità è la sfida che si pone di fronte a ciascuno di noi, ed è la sfida più importante della nostra vita. 
Che la politica pensi di poterla delegare a un algoritmo, invece di impegnarsi a far maturare le coscienze, è solo un’ulteriore conferma della sua debolezza.

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