Morire a vent'anni. Per futili motivi

È stato ucciso per una bevanda, Emanuele Morganti, il ragazzo ventenne picchiato fuori da un locale ad Alatri, in provincia di Frosinone, e morto dopo due giorni di agonia in un letto del policlinico Umberto I°. «Tutti si staranno chiedendo – ha ricordato il vescovo Lorenzo Loppa nell’omelia ai funerali – dov'eri Signore quando Emanuele veniva pestato? Il Signore risponde: ero in quel corpo martoriato, morivo lì un'altra volta». Ma cosa spinge a uccidere per così futili motivi?

Morire a vent'anni. Per futili motivi

La violenza è un fenomeno complesso e proteiforme.
Non ci vuole molto per accertarsene, basta leggere la cronaca dei quotidiani o seguire i notiziari televisivi. Se poi si consulta qualsiasi dizionario alla voce “violenza” ci si rende subito conto a quale intrico di accezioni il termine rimandi.

Sembra quasi che la violenza ci accompagni come un’ombra.
Si parla di vite, ma anche di morti violente. Di passioni violente, ma anche di parole, di azioni, di movimenti violenti. Persino di soggetti, di persone violente.

E qui siamo al cuore del problema, alla violenza di chi di fronte all’altro si costituisce come padrone, rivendica un diritto senza rispettare il diritto dell’altro. In qualche modo si appropria del diritto, dimenticando che parlare di diritto significa porsi all’interno di un orizzonte entro il quale il soggetto – ogni soggetto – si presenta come degno di assoluto rispetto e refrattario per principio a ogni possibile o reale volontà di appropriazione.

Parlare di diritto in questo senso significa riconoscere che il soggetto non si appartiene, che la sua esistenza non è soltanto un dato di fatto, ma un valore morale.
Significa però anche riconoscere che questo valore non si identifica con nessun’altro, per quanto fondamentale e anche moralmente rilevante, come la vita, la salute, la ricchezza, il lavoro, la professione, il successo, la bellezza, la stessa religione, ecc. Tutti valori che possono essere presenti, e gli altri hanno dunque il dovere di rispettarli. Ma possono anche mancare, e in questo caso il diritto assume la forma di un appello a riconoscerli e a promuoverli.

Altro però, ripetiamolo, sono questi valori, altro è il valore morale: solo questo costituisce la dignità del soggetto, della persona. Che magari può anche non avere la forza di “far valere i propri diritti” – si pensi ai bambini, ai poveri, ai malati, a chi non ha la capacità di intendere e di volere – ma ha sempre dalla sua la “forza del diritto”, quella misteriosa forza che traspare dagli occhi dell’altro e si ripercuote nella coscienza con la perentorietà dell’imperativo morale categorico, assoluto.

Si pensi ora per un attimo alla povera vittima del pestaggio di Alatri e ai suoi occhi imploranti.
Ma si pensi anche agli occhi imploranti di tante altre vittime che soccombono alla violenza. La fenomenologia è varia e va dalla parola volgare all’insulto, dalla mancanza di attenzione al sopruso, per arrivare ai casi di cui sono piene le cronache dei giornali che ora ci parlano di aggressioni senza limiti, ora di aggressioni per futili motivi o senza alcuna motivazione.

La domanda che ritorna è antica e sempre la stessa: come mai gli occhi imploranti della vittima non trovano la forza di bloccare l’istinto aggressivo dell’uomo?
Sono state avanzate al riguardo molte ipotesi di spiegazione e anche molte proposte di contenimento e rielaborazione dell’aggressività. La società antica, ad esempio, per mettere fine alla violenza indiscriminata della vendetta si è inventata la “legge del taglione”: occhio per occhio, dente per dente.
La società moderna ha tentato di mettere fine al circolo vizioso della violenza che chiama violenza dotandosi di un “sistema giudiziario” più o meno elaborato ed efficiente o dando vita a movimenti di contro-violenza, alcuni pacifici, altri rivoluzionari.
Solo la religione si appella alla “legge del cuore” nella convinzione che soltanto soggetti che hanno vinto dentro di sé la violenza sono capaci di istituire – di inventare – una società non violenta.

Il discorso sulla violenza non va posto in ogni caso solo in termini di natura buona o cattiva, di evoluzione o di rivoluzione, di forza o di diritto.

L’uomo non è un insieme di disposizioni innate o acquisite: è libertà di fronte al bene o al male, possibilità di essere buoni o cattivi in forza della propria scelta. È il motivo per cui al cuore violento dell’uomo il messaggio cristiano predica la libertà come liberazione dalla violenza, ma soprattutto come forma di amore di Dio da accogliere e da dare. Come ci ricorda la liturgia di questo tempo di passione e di redenzione: “Eravamo dalla nascita meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati ci ha fatti rivivere con Cristo” (Ef. 2,3).

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