Papa Francesco a Redipuglia, L’arma più potente di tutti gli arsenali

Il lume è al tempo stesso simbolo cristiano della luce della fede che squarcia le tenebre della morte, e simbolo laico della ragione che abbatte l’oscurità dell’ideologia. Un gesto per andare al cuore dei conflitti, e richiamare l’umanità all’ascolto della voce di Dio che invita alla fratellanza universale.

Papa Francesco a Redipuglia, L’arma più potente di tutti gli arsenali

Quando il 6 giugno scorso papa Francesco annunciò a sorpresa la sua visita al sacrario militare di Redipuglia, accanto alla grande gioia delle comunità cristiane di poter accogliere il pastore della chiesa universale e all’unanime sentimento popolare di attesa per una grande personalità riconosciuta da tutti, al di là delle convinzioni religiose o di pensiero, in alcuni, più attenti al valore simbolico dei gesti, nacque anche un senso di disagio per il luogo prescelto dal pontefice per commemorare l’«inutile strage», una tragedia universale che ha lasciato memorie di morte in ogni angolo della terra. Redipuglia, è vero, custodisce 100 mila delle vittime di quel conflitto, è uno dei più grandi sacrari al mondo, ma non è solo questo.

Tale era ed è il «Cimitero degli Invitti», l’originario sacrario inaugurato nel 1923 a Redipuglia sul Colle di Sant’Elia, che si trova giusto di fronte all’attuale monumento. Il sacrario di Redipuglia di oggi, invece, è molto di più e molto altro: inaugurato il 18 settembre 1938, è una monumentale autocelebrazione del regime fascista e delle mire nazionalistiche ed imperialistiche dell’Italia, ideato e realizzato, sotto la supervisione dello stesso Mussolini, dall’architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni, senza badare a spese. Nella disposizione architettonica non vi è nulla di casuale: il sacrario doveva incarnare, secondo i voleri del dittatore committente, la concezione fascista della guerra e della nazione. Di qui alcune riflessioni critiche, al di qua ma anche al di là dei confini nazionali (sul fronte dell’Isonzo combatterono pressoché tutti i popoli della Mitteleuropa).

In queste settimane papa Francesco ha saputo dissipare anche queste perplessità. Prima di tutto con la visita privata al cimitero militare austro-ungarico di Redipuglia, non annunciata in prima battuta ma sicuramente fin dal principio nel cuore del Santo Padre. E poi con il contesto sempre più internazionale dell’evento, con la presenza di cappellani militari da tutto il mondo ma anche di uomini di chiesa a livello internazionale, tra cui spicca, per evidenti motivi storici, la pronta adesione dell’arcivescovo di Vienna, card. Cristoph Schönborn.

Contribuisce a una rinnovata lettura dei luoghi anche la bella iniziativa che il 3 settembre, ad appena 10 giorni dall’arrivo di papa Francesco, ha portato alla consacrazione alla Regina della Pace della cappella posta sulla sommità del sacrario. Un’iniziativa, accolta dall’ordinariato militare d’Italia, e nata dal progetto educativo “Umanità dentro la guerra” svolto da alcune scuole friulane e ispirato alla vicenda di umanità vissuta nella seconda guerra mondiale da un soldato di Gemona del Friuli, Ferdinando Pascolo, durante la sciagurata campagna di Russia.

Così, ora, la simbologia fascista lascia il passo a un profondo richiamo di fede e di fratellanza cristiana, espresso nella cappella dal Padre Nostro tradotto nelle 19 lingue dei popoli che combatterono sul fronte dell’Isonzo durante la Grande Guerra.

Ma c’è molto di più. In queste settimane la riflessione sulla pace e la guerra è sempre più al centro del pensiero bergogliano. In tal senso, idealmente, il 13 settembre la parola “presente” scolpita ossessivamente sulle scalinate di Redipuglia verrà tradotta simultaneamente nelle innumerevoli (troppe) lingue parlate dai popoli che oggi sono vittime di conflitti armati, di persecuzioni, di dittature, di epocali ingiustizie. Sarà presente il dolore delle popolazioni ucraine, il grido dei cristiani caldei e dei siriani tutti, degli yazidi, dei curdi e dei turcomanni dell’Iraq, i tanti idiomi delle popolazioni afghane stremate da una guerra infinita, l’anelito del Sud Sudan, della Somalia e della Libia per la pace, la disperazione dei cristiani della Nigeria braccati dalla ferocia degli integralisti Boko haram e via via l’eco di tutti i luoghi in cui sulla terra tuona ancora il cannone.

Non sappiamo cosa dirà papa Francesco al proposito, pensando alle «inutili stragi» di ieri e di oggi. Conosciamo però il gesto simbolico che proporrà, regalando ai cappellani militari di tutto il mondo delle lampade accese alla fiamma del sepolcro ove riposa san Francesco di Assisi. Il lume è il simbolo cristiano della luce della fede che squarcia le tenebre della morte e del peccato, ma al contempo anche il simbolo laico della ragione che abbatte l’oscurità dell’ideologia e della superstizione. Con questo gesto è come se il papa andasse al cuore di tutti i conflitti. Se a Redipuglia Mussolini voleva scolpire nella pietra il primato dell’istanza collettiva della nazione sull’identità e la coscienza individuale, oggi papa Francesco invita i popoli della terra a dare ascolto prima di tutto alla voce di Dio insita nel cuore di tutti gli uomini, che ispira sentimenti di fratellanza universale e svuota dal di dentro i conflitti, siano essi ispirati dalla supposta supremazia di un popolo o di una razza su un’altra, come dalle costruzioni ideologiche che promettono paradisi terreni o dal delirio integralista che trasforma le religioni in sanguinari stati teocratici.

Benvenuto, dunque, papa Francesco. Guidaci, santo padre, su quei sentieri di pace che soli possono allontanare il mondo dai pericolosi scenari di conflitto che incendiano pressoché tutti i continenti; porta alle nostre genti un forte messaggio di riconciliazione che sia balsamo sulle profonde ferite di un passato recente, in larga parte cicatrizzate ma ancora a volte dolorose; ridona coraggio alle nostre comunità cristiane affinché possano testimoniare con sempre maggiore slancio la visione di una Europa cristiana che animò la chiesa madre di Aquileia; accendi in noi il fuoco della carità perché ogni uomo e ogni popolo presente sui nostri territori, siano essi minoranze storiche o genti di nuova immigrazione, si senta sempre accolto e valorizzato pienamente nella dignità dei figli di Dio.

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