Referendum. Ora usiamo il fioretto, non la clava

Il referendum sull’autonomia del Veneto è stato una chiara vittoria per il governatore Zaia. Ma per mantenere la dote di consenso ottenuta, non servono fughe in avanti, slogan da campagna elettorale e tantomeno provocazioni. Solo se intrapreso col giusto spirito, depurandolo di ogni connotazione egoistica e a maggior ragione di ogni pulsione indipendentista, il negoziato potrà sfociare in qualcosa di concreto, sempre che il governo sappia muoversi con eguale saggezza. 

Referendum. Ora usiamo il fioretto, non la clava

Il referendum sull’autonomia del Veneto è stato una chiara vittoria per il governatore Zaia.
Aver portato ai seggi in una domenica di pioggia, per un referendum consultivo, quasi il 60 per cento degli elettori – vale a dire gli stessi delle regionali – significa “aver fatto il pieno” interpretando un sentimento trasversale a tutte le forze e le culture politiche, con rarissime eccezioni. La vittoria è scritta nei numeri, ed è confermata dai toni che lo stesso presidente del consiglio Gentiloni ha usato all’indomani, con una cortesia e uno spirito di collaborazione che sono tanto più significativi se si considera il tono freddo – per non dire ostile – che negli ultimi anni ha governato le relazioni tra Roma e Venezia.

Zaia sapeva bene che per aprire una trattativa con il governo da posizioni di forza serviva un consenso ben più ampio del suo perimetro di maggioranza

Al di là delle buone intenzioni e delle dichiarazioni di circostanza, infatti, la trattativa che dovrebbe aprirsi nel giro di qualche settimana non sarà per nulla semplice, e il Veneto potrà sperare di arrivare in fondo alla partita solo nella misura in cui saprà offrire un’immagine coesa e determinata. Ma per mantenere la dote di consenso ottenuta, non servono fughe in avanti, slogan da campagna elettorale e tantomeno provocazioni, come con tutta evidenza è stato l’annuncio – all’indomani del voto – di voler richiedere per la nostra regione lo statuto speciale.

Evidentemente l’euforia può far vacillare anche i politici più navigati, e d’altronde lo stesso Zaia nel giro di poche ore si è premurato di smorzare i toni nel salotto di Bruno Vespa.

C’è un altro rischio da evitare, ed è quello di farne tutta e solo una questione di soldi, di schei come inevitabilmente tradurrebbe il resto dell’Italia.
Impostare una trattativa calcando la mano sul fisco, chiedere di trattenere i nove decimi delle tasse, manda un messaggio fatalmente negativo, di egoismo e chiusura. Altra cosa, ben altra cosa, è chiedere maggiori competenze. E, di conseguenza, le risorse necessarie a gestirle.
Se il Veneto può diventare un «laboratorio dell’autonomia», come sottolineato dallo stesso Zaia, la formula da inventare deve essere replicabile in tutte le altre regioni e aiutare tutta l’Italia a migliorare. Possiamo e dobbiamo “tirare la volata al gruppo”, non certo pensare di andarcene in fuga solitaria abbandonando il resto della squadra al suo destino.

Da dove partire, allora?
Anche l’idea di chiedere in un colpo solo la competenza su tutte le materie che la Costituzione ammette poter essere oggetto di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», pare davvero azzardata. Non solo al sottoscritto, peraltro. Lo spiegava bene Mario Bertolissi – uno dei più autorevoli costituzionalisti italiani, che il referendum lo ha spiegato e difeso per conto della regione di fronte alla Consulta – in un dibattito organizzato dalle Acli del Veneto alla vigilia del voto, invitando Zaia ad aprire la trattativa su poche, qualificate, materie. È questione di approccio, di stile, ma anche di buonsenso: gestire dall’oggi al domani rapporti internazionali, commercio con l’estero, lavoro, istruzione, reti di trasporto, energia, previdenza e via elencando rischia di essere opera improba anche per la più efficiente delle macchine amministrative.

Dovessimo dare un consiglio, sarebbe quello di partire dai settori in cui davvero il Veneto ha una sua chiara specificità, e in cui più necessita di politiche “tagliate su misura”.
Penso al vasto mondo dell’istruzione, dalla rete di atenei alle scuole dell’infanzia che da noi sono per la gran parte espressione delle parrocchie, dei comuni, della società civile e sono chiaramente penalizzate da un sistema nazionale pensato con altri parametri.
Penso al governo del territorio, in una regione che non ha una metropoli-capitale ma un’area metropolitana vasta, con problemi ben diversi da Roma, Milano, Torino o Napoli.
Penso a quanto la Costituzione indica in materia di «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», che sono uno dei grandi tesori (anche economici) del Veneto e che potrebbero davvero giovarsi di politiche pensate in regione. Solo tre esempi, a cui se ne potrebbero aggiungere certamente altri senza cambiare la logica di un cammino fatto anche di esperimenti, di verifiche, di traguardi intermedi.

Se intrapreso con questo spirito, depurandolo di ogni connotazione egoistica e a maggior ragione di ogni pulsione indipendentista, forse il negoziato potrà sfociare in qualcosa di concreto, sempre che il governo sappia muoversi con eguale saggezza, senza chiusure ideologiche e senza atteggiamenti di supponenza che pure in questi giorni abbiamo visto affiorare. Il Veneto, lo abbiamo detto e sentito dire più volte, non è la Catalogna. Speriamo, detto per inciso, che anche Roma non si comporti come Madrid.

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