Meno strutture, forza o debolezza?

Tra pietre e persone. Interroghiamoci su cosa significhi sostenibilità. Autentica e condivisa.

Meno strutture, forza o debolezza?

Da qualche mese l’istituto Barbarigo è ufficialmente senza la chiesa, «ridotta a uso profano» per decreto vescovile.

In realtà da circa quindici anni lo spazio era già stato adibito ad altri usi e una cappellina dal suggestivo nome “Cenacolo” basta egregiamente alle necessità dell’istituto, ma a qualcuno la cosa ha fatto impressione: «Come, una scuola cattolica che resta senza chiesa?».

Senza magari sapere che la chiesa era stata costruita per i “collegiali”, i ragazzi che nei decenni centrali del Novecento vivevano al Barbarigo alla maniera di seminaristi, e quindi erano tenuti alla messa quotidiana; e che collegiali non ce ne sono più da almeno quarant’anni... Domande simili si possono estendere ad altre situazioni che hanno visto la rinuncia – e quindi la successiva alienazione o destinazione ad altri usi – di strutture ritenute importanti, se non indispensabili, e comunque significative: il seminario di Tencarola, in primis e più dolorosamente per la lunga vicenda non ancora conclusa; il “patronato del Santo” (con ultimo utilizzatore il Movimento studenti di Ac); l’innominata “casa della comunicazione” di via Cernaia; villa Sabina a San Vito di Cadore, il collegio-mensa Leopardi, la colonia ex Oda a Caorle: in tutto quasi trent’anni della mia biografia personale, tanto per essere concreti...

Forse mi sfugge qualcosa dall’elenco, ma non posso dimenticare lo stallo in cui si trova un ambiente ricco di fascino e memoria come villa Rosengarten a Meida di Fassa (nella foto). E questi nomi, per certi aspetti “struggenti”, fanno apprezzare i progetti che sono riusciti a far rivivere in modo nuovo ambienti e strutture “a rischio”, a partire dal Dolomiti Pio X di Borca...

Comunque non può non sorgere un interrogativo, per altro già posto all’incontro diocesano di fine ottobre 2017 per la presentazione dei bilanci della diocesi. Lo configurerei così: rinunciare a (questi) ambienti e strutture è segno di forza o di debolezza della nostra chiesa? Se è costatazione di debolezza vedere i numeri calare e i conti talvolta piangere, è segno di forza riuscire a proseguire la missione con minori strutture a disposizione: i ragazzi del Barbarigo pregano tuttora, la Difesa continua a uscire, il seminario vive ancora, l’Azione cattolica ha riconvertito le proposte estive, la fondazione Lanza potrà svolgere bene il suo ruolo anche lontana dallo splendido ma oneroso palazzo cittadino dov’è nata...

Se la sostenibilità di attività ed enti è un dovere ormai inderogabile (anche se non tutti l’hanno compreso), ricercare l’essenzialità e la “leggerezza” può favorire percorsi di autenticità evangelica che lascino trasparire meglio il fine delle strutture e dei beni della chiesa e non creino scandalo, o comunque imbarazzo, a fedeli (e non fedeli). Se un minimo di “sede” e dotazioni tecnico-logistiche è necessario anche per preparare un manifesto del grest, non va mai dimenticato che le persone sono più importanti dei muri, pure sacri; già gli antichi dicevano che la civitas, la «città delle anime», è più dell’urbs, la «città delle pietre».

E da qui mi nascono allora altre domande. Quanto è giusto – evangelicamente parlando – impegnare soldi per lo splendore della liturgia in rapporto alle esigenze della Caritas o della formazione e qualificazione di catechisti e operatori pastorali?

Si possono ipotizzare proporzioni sensate – evangelicamente sensate – tra quanto una comunità cristiana riserva a se stessa (attività, necessità, investimenti progettuali…) e quanto destina ad extra (missioni, per esempio)? Quale senso ha – ragionando evangelicamente – impegnare risorse comunitarie, anche pubbliche (come fondi regionali, europei), spesso ingenti, in nome del recupero della tradizione e storia locale (spesso solo paesana), per ristrutturare e riaprire chiesette abbandonate da decenni e poi utilizzabili solo poche volte?

Non ho le risposte, ma qualcuno insegna che talvolta le domande sono più importanti delle risposte. Perché certe domande spingono a pensare bene prima di agire, a non dare per scontato di essere il centro dell’universo, a cogliere le provocazioni del vangelo o dei poveri… A camminare dunque verso una vera sostenibilità, fatta di autenticità e condivisione.

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