Così la Brexit torna a dividere l’Irlanda

Se gli slogan della campagna referendaria dello scorso anno per portare il Regno Unito fuori dall’Unione Europea promettevano ai cittadini britannici il recupero di una grandezza passata, ora è la realtà dei fatti a consigliare molta più prudenza. In Scozia il 62 per cento ha votato contro la Brexit e il governo locale ha ottenuto il via libera parlamentare per l’indizione di un nuovo referendum (dopo quello del 2014) per staccarsi da Londra; ma è in Irlanda del Nord, dove pure la maggioranza ha votato per rimanere nell’Unione Europea, che potrebbero riaccendersi contrapposizioni e rivendicazioni dagli effetti dirompenti.

Così la Brexit torna a dividere l’Irlanda

A Roma si sono solennemente celebrati i sessant’anni di vita del progetto di integrazione europea, che oggi viene duramente contestato da platee sempre più ampie che lo additano come causa di molti mali, riassumibili nella perdita di quella sovranità nazionale che – sola – potrebbe offrire le necessarie garanzie contro la crisi economica, le ondate immigratorie e anche il terrorismo internazionale di matrice islamica. Da qui il conseguente corollario dell’innalzamento dei muri materiali, sociali, culturali e politici per difendere le proprie radici e la propria identità.

Insomma l’esatto contrario di ciò che significano e vogliono rappresentare i principi e i valori costitutivi dell’Unione Europea, ai quali si sono ispirati gli statisti dei paesi fondatori sulle ceneri della seconda guerra mondiale. È da lì che si dovrebbe partire per ragionare sull’importanza o meno della difesa di un progetto che ha assicurato il più lungo periodo di pace della storia del continente europeo. Del resto le controprove non mancano, come dimostrano, in maniera esplicita, le guerre in Ucraina e durante la disgregazione dell’ex Jugoslavia, in contesti esterni all’ambito comunitario; oppure le tensioni, per ora implicite, che potrebbero riesplodere in Irlanda del Nord dopo la Brexit.

Se gli slogan della campagna referendaria dello scorso anno per portare il Regno Unito fuori dall’Unione Europea promettevano ai cittadini britannici il recupero di una grandezza passata, ora è la realtà dei fatti a consigliare molta più prudenza. In Scozia il 62 per cento ha votato contro la Brexit e il governo locale ha ottenuto il via libera parlamentare per l’indizione di un nuovo referendum (dopo quello del 2014) per staccarsi da Londra; ma è in Irlanda del Nord, dove pure la maggioranza ha votato per rimanere nell’Unione Europea, che potrebbero riaccendersi contrapposizioni e rivendicazioni dagli effetti dirompenti.

Non vanno, infatti, dimenticati i trent’anni di guerra civile tra cattolici e protestanti, che hanno provocato oltre tremila morti.
Risalgono al 1998 i famosi accordi del Venerdì Santo che hanno portato alla rinuncia alla lotta armata da parte dell’Ira (l’esercito repubblicano irlandese) – che aveva scelto la lotta armata per cacciare gli inglesi – e alla formazione di un governo unitario a Belfast tra cattolici e protestanti.
I cattolici sono sempre rimasti favorevoli alla riunificazione dell’isola, mentre i protestanti vogliono mantenere il legame con Londra; ovviamente gli odi e le ruggini dei lunghi anni di violenza hanno lasciato strascichi difficilmente superabili ma, nonostante tutto, in questi ultimi vent’anni è stato possibile realizzare un percorso di pacificazione che ha garantito stabilità e prospettive di crescita economica. Le recenti elezioni regionali hanno infine sancito il sorpasso della rappresentanza cattolica su quella unionista, per la prima volta nella storia.

L’Irlanda del Nord ha potuto beneficiare dell’intensificazione dei rapporti economici con Dublino: molte aziende operano al di qua e al di là di un confine diventato a tutti gli effetti comunitario, cioè aperto al libero passaggio delle persone. Gli investimenti internazionali che hanno permesso alla Repubblica irlandese di superare la recente, pesante crisi economica, oggi troverebbero condizioni favorevoli per estendersi anche al nord.
Tuttavia, non si devono sottovalutare alcuni fatti, e cioè che, sebbene quasi tutta la popolazione nordirlandese abbia imparato ad apprezzare i vantaggi della pace, non sono stati ancora del tutto smantellati gli sbarramenti tra le aree cattoliche e quelle protestanti; che soltanto una minima parte di studenti frequenta scuole integrate, preferendo quelle confessionali (cattoliche o protestanti); e che in tutta la regione nordirlandese permangono alti tassi di povertà e disoccupazione.

Sicuramente tra gli effetti della Brexit ci sarà anche la riapertura del dibattito politico sulla riunificazione irlandese, prevista del resto come possibilità pure dagli accordi di pace del 1998.
Rimane l’incognita sulle modalità di svolgimento di tale dibattito, che tutti auspicano possa avvenire pacificamente, evitando di ripristinare innanzitutto la vecchia frontiera tra le due parti dell’Irlanda. Un auspicio basato sulle ragioni fondative dell’Unione Europea: quelle che mirano al superamento dei confini e all’abbattimento dei muri.

Stefano Verzè

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