Curare i malati di Ebola con la paura addosso e chiusi in uno scafandro

L'epidemia ha già ucciso 2.500 persone, mentre i contagi raddoppiano ogni settimana. Nonostante i progressi nelle cure (la mortalità è scesa dal 90 al 50 per cento), le stime al ribasso prevedono almeno 7.000 vittime. Roberta Petrucci, medico pediatra di Medici senza frontiere, è stata cinque settimane nell'epicentro dell'epidemia, al confine con Sierra Leone e Guinea: «Siamo molto soli in questa lotta. È importante parlarne e che ci sia la consapevolezza degli enormi bisogni».

Curare i malati di Ebola con la paura addosso e chiusi in uno scafandro

Una tuta bianca, gialla e verde con un grembiule davanti, occhiali, mascherina e cappuccio. Una sorta di scafandro dentro il quale è difficile respirare e si soffoca dal caldo. Senza è impossibile curare i malati di Ebola.
Per renderlo meno disumano agli occhi dei pazienti, molti dei quali costretti ad una morte straziante soli e lontani dai familiari, medici e infermieri scrivono a penna sul grembiule il proprio nome. Questa è la prima precauzione e la condizione necessaria al lavoro degli operatori umanitari di Medici senza frontiere nei cinque centri di isolamento che gestiscono in Liberia, Sierra Leone, Guinea Conakry, i paesi dell’Africa occidentale più colpiti dall’epidemia, che ha già ucciso 2.500 persone, mentre i contagi raddoppiano ogni settimana.
Nonostante i progressi nelle cure (la mortalità è scesa dal 90 al 50 per cento) le stime al ribasso prevedono almeno 7.000 vittime. Il contagio si sta allargando anche al Senegal e alla Nigeria, perché tra i paesi africani è difficile monitorare le frontiere. Controlli molto accurati vengono invece fatti negli aeroporti, per cui è basso il rischio di una diffusione fuori dall’Africa.
In questi centri di isolamento gli operatori si vestono delle tute monouso, visitano i pazienti per circa un’ora poi escono. Nella tragicità della situazione, chi riesce a guarire e sta lì in convalescenza, ascolta la radio, balla. C’è molta solidarietà.
Emblematica la storia di una mamma morta lasciando un bambino di tre mesi. È stato preso in cura da una paziente ed entrambi sono usciti sani e salvi. Nei villaggi invece si distribuiscono kit preventivi per fare l’acqua clorinata (per arginare il virus è sufficiente lavarsi le mani) e vengono prese cautele durante i funerali. L’emergenza è drammatica, le risorse sono poche e le forze degli operatori sono allo stremo.
Nonostante 46 miliardi di euro stanziati e 2.500 operatori, Msf ha dovuto lanciare un appello con un sms solidale al numero 45507, per donare 2 euro. Ne abbiamo parlato con il medico pediatra Roberta Petrucci, che è stata cinque settimane nell’epicentro dell’epidemia, al confine con Sierra Leone e Guinea.

Cosa ha trovato appena arrivata?
«Una situazione catastrofica. Malgrado abbia lavorato tanti anni con Msf ed abbia visto molte emergenze era indescrivibile. La malattia è terribile, con una mortalità fino al 90 per cento all’inizio dell’epidemia. I pazienti entrano nel centro e nella maggioranza dei casi escono in una bara. Anche se lavoriamo in condizioni molto difficili, con tute inumane, cerchiamo sempre di instaurare con i pazienti un rapporto umano. Parliamo con loro, offriamo supporto emotivo e psicologico, li aiutiamo a mangiare».

La popolazione come sta reagendo?
«La popolazione è estremamente spaventata, la paura è palpabile. Ci sono villaggi che hanno perso metà della loro popolazione a causa dell’ebola, e persone che non conoscevano nemmeno la malattia. Questo è stato uno dei motivi principali per cui si sta diffondendo in maniera così rapida e capillare. Abbiamo trovato un centro di isolamento con 10 posti letto che nel giro di qualche giorno ha accolto 140 pazienti. Ad un certo punto siamo stati costretti a rifiutare pazienti perché non eravamo più in grado di accoglierli. C’è uno staff di medici, infermieri e logisti del posto estremamente motivati a lavorare con noi, nonostante tutti abbiano avuto dei lutti all’interno della propria famiglia o comunità. Con le cure, anche se non specifiche, in alcuni nostri centri la metà dei pazienti escono guariti».

Come si lavora con la paura del contagio e l’urgenza di salvare vite umane?
«È un lavoro estremamente difficile per la pressione psicologica di dover fare del proprio meglio, mantenendo la propria sicurezza e quella dei colleghi. La paura è importante perché ci permette di mantenere sempre alta l’allerta e ridurre al minimo il rischio. Bisogna seguire i protocolli in maniera accurata. La fatica fisica è molto presente».

Sentite il sostegno della comunità internazionale?
«Sinceramente siamo molto soli in questa lotta. È importante parlarne e che ci sia la consapevolezza degli enormi bisogni. Però è arrivato anche il momento di agire su diversi livelli: aumentare il numero di posti letto nei reparti di isolamento; aumentare la presenza nelle comunità per fare educazione e permettere alla popolazione di proteggersi; aumentare il tracciamento di tutte le persone a contatto con pazienti positivi. Bisogna arrivare in tutte le comunità e farlo subito. Ogni giorno in più sono persone in più che si infettano e muoiono».

Gli Usa hanno annunciato l’invio di tremila militari per combattere l’Ebola…
«Quando parliamo di militari sono corpi medici. C’è bisogno di personale medico competente che possa agire in prima linea per una patologia di non facile gestione. Che siano attori istituzionali, non istituzionali, protezione civile o unità mediche, sono tutti benvenuti. È necessaria un’azione di massa altrimenti sarà sempre peggio».

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Parole chiave: Medici senza frontiere (2), Msf (5), contagio (3), epidemia (9), Ebola (17), Africa (53)
Fonte: Sir