Dopo il referendum: «Noi, giovani irlandesi facciamo i conti con la nostra realtà»

Maura Garrihy, 25 anni (diocesi di Galway) dirige l'ufficio diocesano per i giovani ed esclude un «rifiuto del cattolicesimo»: «Chi ha votato "sì" lo ha fatto per assicurare che i gay non si sentano più cittadini di seconda classe o che debbano nascondere la loro sessualità». E ancora: «Viviamo in un mondo affollato e rumoroso. Può essere difficile per un giovane sentire tra le tante la voce della chiesa».

Dopo il referendum: «Noi, giovani irlandesi facciamo i conti con la nostra realtà»

Il voto irlandese lo vivono come una «loro» vittoria. La vittoria dei giovani. Sono loro ad aver aperto, con il referendum, la via costituzionale del matrimonio alle persone omosessuali. Figli e figlie di una chiesa fortemente radicata sul territorio, la maggioranza di loro ha frequentato le scuole cattoliche. Per questo, dopo le analisi di cardinali e arcivescovi, dopo le dichiarazioni di politici e sociologi, siamo andati a chiedere a loro, ai giovani cattolici irlandesi, che cosa pensano del voto, dell’amore e dell’insegnamento morale della chiesa. Maura Garrihy, 25 anni, ha accettato la sfida. Lavora nella diocesi di Galway nel West Coast irlandese. È direttore dell’ufficio diocesano per i giovani e coordinatrice del “National Mission for Youth 2000 Ireland”. 

Maura, come hanno votato i tuoi amici al referendum? 
«Molti, quelli che non fanno parte di gruppi di preghiera o parrocchiali, hanno votato "sì". Credo che lo abbiano fatto perché ritengono che consentire il matrimonio alle persone dello stesso sesso, significhi garantire uguaglianza alle persone gay. Hanno cioè ritenuto che questo referendum fosse una sorta di bilancio su come vengono considerate le persone gay e quale posto esse debbano avere nella nostra società. In linea generale, non credo assolutamente che i giovani in Irlanda abbiano visto il referendum come una questione di "chiesa contro stato". Non credo che chi ha votato "sì", lo abbia fatto in rifiuto del cattolicesimo. I nostri giovani sono idealisti e desiderano un mondo giusto. Credono che aprire il matrimonio alle persone dello stesso sesso significa creare un mondo più amorevole e giusto. È stato un voto scelto per amore, rispetto e uguaglianza». 

Cosa pensano i tuoi amici della famiglia, dell’amore, dell’omosessualità? 
«Per la stragrande maggioranza dei giovani, la famiglia e l'amore sono di estrema importanza. I giovani irlandesi vogliono il meglio per tutte le famiglie. Vogliono una società equa. Sono consapevoli delle sfide che devono affrontare le persone che sono gay. Chi ha votato "sì" lo ha fatto per assicurare che i gay non si sentano più cittadini di seconda classe o persone che debbano nascondere la loro sessualità. L'idealismo è importante, è veramente ciò che ispira il progresso. Ma credo anche che l'idealismo e il progresso non devono oscurare la verità. E il referendum non era su come si sentono le persone gay o come dovrebbero essere trattate. Era sulla definizione del matrimonio». 

L’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, ha detto che la chiesa deve «fare i conti con la realtà». Che cosa intendeva dire secondo te? 
«Per molti versi mi sembra che dobbiamo essere noi, giovani, a fare i conti con la nostra realtà! E la realtà è che i giovani sono alla ricerca di significato e di scopo. Desiderano la felicità. Vogliono una causa per cui combattere, vogliono fare la differenza in questo mondo. Cercano questa felicità in una cultura che non è nutrita dei valori cristiani. La nostra catechesi per i giovani è stata estremamente povera e alcuni hanno respinto la visione di fede che è stata finora presentata. Come risultato, fanno fatica ad accettare gli insegnamenti morali della chiesa». 

Ma è un problema di linguaggio? 
«Viviamo in un mondo affollato e rumoroso. Può essere difficile per un giovane sentire tra le tante la voce della chiesa. Per molti dei nostri giovani, una volta che ricevono i sacramenti dell'iniziazione, non entrano più in chiesa fino a che non partecipano a un matrimonio, un funerale, un battesimo. La grande sfida è come condividere il messaggio di Gesù e della chiesa in modo che i giovani lo possano capire, cogliendo la pienezza della verità e la bellezza della nostra fede. Il linguaggio della chiesa, invece, per molti dei nostri giovani non è familiare”. 

L’arcivescovo Martin parla di una rivoluzione sociale in atto. In che senso? 
«Siamo una società molto più istruita rispetto alle generazioni precedenti. Questa non è una brutta cosa. Ma gli interessi delle persone sono cambiati, così come il loro modo di pensare e le loro attitudini. Credo che la chiesa abbia investito poca energia a comprendere questo cambiamento in atto. Non abbiamo reagito abbastanza velocemente alle esigenze della società e, in ultima analisi, ai suggerimenti dello Spirito santo. Il risultato del referendum sottolinea proprio questo. Molti dei giovani elettori che hanno votato a favore, hanno ricevuto i sacramenti e seguito un'educazione cattolica. Il referendum rispecchia dove siamo. Abbiamo bisogno di guardare a come abbiamo educato alla fede, perché è chiaro che il modo in cui abbiamo trasmesso la bellezza della nostra fede non ha avuto successo così come la visione cristiana del matrimonio e della famiglia o che ogni bambino merita una madre e un padre…». 

Quale sfida si apre ora a chi lavora nella pastorale giovanile?
«Dobbiamo attrezzarci e incoraggiare le persone ad amare la chiesa. Noi stessi dobbiamo credere in quello che professiamo. Dobbiamo essere un popolo di profonda convinzione ed essere in grado di presentare ciò in cui crediamo, con entusiasmo agli altri. Non credo che questo referendum sia stato un dibattito sulla Chiesa. Tuttavia noi come Chiesa, dobbiamo guardare a quello che il referendum ci ha detto, in particolare nel compito dell'evangelizzazione».

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Fonte: Sir