La storia: «Quando nel 2000 incontrammo ebola»

Suor Dorina Tadiello, medico dell’ospedale missionario cattolico Lacor, a Gulu, città del nord Uganda, ha tenuto un diario di quei giorni terribili. 400 persone colpite e 224 morti. Fra loro tredici eroi civili: 11 infermieri più il medico responsabile, Matthew Lukwiya, che aveva diagnosticato l’infezione da virus. Per contrastare la malattia, oltre alla prevenzione ci vuole una mobilitazione generale.

La storia: «Quando nel 2000 incontrammo ebola»

«Abba, abba, padre, tu sei il vasaio e noi la creta». Il canto, in lingua acholi, sale piano dalle labbra di Grace Akullo, giovane infermiera. È in un letto dell’ospedale missionario cattolico Lacor, a Gulu, città del nord Uganda. Si è prodigata per curare i malati di ebola, poi il virus l’ha colpita e la porterà alla tomba. Assieme a lei perdono la vita altri 11 infermieri più il medico responsabile, Matthew Lukwiya.
«Sono persone e fatti che ti segnano la vita», spiega suor Dorina Tadiello, medico dello stesso ospedale dove, esattamente 14 anni fa, nell’autunno 2000, viene scoperta una tremenda infezione di ebola, che colpisce in poche settimane oltre 400 persone e ne uccide ufficialmente 224. La religiosa comboniana, appena rientrata in Italia da Gulu (è stata eletta superiora provinciale del suo istituto), racconta al di aver tenuto un diario dall’insorgere della malattia a quando, poco tempo dopo, l’infezione viene dichiarata terminata dall’Organizzazione mondiale della sanità, interessatasi direttamente al caso del St. Mary Lacor Hospital, già assurto alle cronache internazionali pochi anni avanti per essere stato in prima linea nella lotta all’Aids.
Oggi, in Africa e nel mondo, torna lo spettro di ebola, con le sue febbri emorragiche e nuove vittime: la malattia, partita dalla Liberia, minaccia gli Stati Uniti e l’Europa, arriva in Spagna, in Francia, forse in Macedonia.

Suor Dorina, ebola è tornato sulle prime pagine dei giornali, forse solo perché si sono scoperti i primi casi in Occidente. Ma lei conosce bene il virus e gli effetti che provoca…
«Certo la mia esperienza personale è stata segnata anche da ebola. Sono una missionaria comboniana dal 1988, ma i miei primi periodi in Uganda risalgono all’inizio degli anni ‘80. Sono cresciuta a Castronno, vicino a Varese, in una famiglia molto religiosa; sono stata impegnata nell’Azione cattolica. Divenuta medico, ho cominciato a interrogarmi sul mio futuro, sollecitata anche da un periodo di due anni proprio a Gulu, dove ero stata da giovane specializzanda su invito di una zia missionaria. In Italia ho vissuto un intenso percorso vocazionale fino ai voti; sono poi ritornata da religiosa nel paese africano. Come medico ero in forza al Lacor Hospital, a lungo guidato dai coniugi Piero e Lucille Corti, anch’essi medici, due persone competenti e che emanavano santità, vivendo al servizio dei malati e dei poveri. Ma è alla fine di settembre del 2000 che Matthew Lukwiya, allora direttore sanitario dell’ospedale con una formazione maturata anche all’estero, scopre il diffondersi della malattia. In pochi giorni erano morti alcuni infermieri che curavano ammalati i cui sintomi sembravano quelli dell’ebola, ancora abbastanza sconosciuto. In una notte il direttore sanitario studia tutte le cartelle cliniche realizzando che si tratta del virus».

A quel punto cosa succede?
«Nel giro di 24 ore il dottor Matthew mette in piedi un reparto per la cura delle malattie infettive utilizzando i criteri dell’Oms. Poi si rivolge al personale dell’ospedale chiedendo che rimanessero solo i volontari; chi non se la sentiva poteva restare a casa, ugualmente pagato. Si forma quindi una squadra con un centinaio di infermieri e tre medici, fra cui io. Si lavorava giorno e notte, in clinica, curando gli ammalati che arrivavano da ogni dove. Mi ricordo una cura amorevole della persona, nella sua totalità: gli infermieri ci davano grande prova di professionalità, di coraggio e di fede. Gli ammalati – che arrivavano da noi sofferenti, ormai isolati da tutti, atterriti dalla malattia e dalla paura di morire e di essere seppelliti lontano da casa – venivano sostenuti, con loro si pregava, si cantava… Poi c’era l’attività di prevenzione, in città e nei villaggi vicini. Per questo avevamo coinvolto le autorità politiche, quelle religiose, sensibilizzando gli anziani dei villaggi, gli insegnanti… Chi chiedeva di essere curato in ospedale compilava la lista delle persone incontrate nei tre giorni precedenti e queste venivano raggiunte a casa, visitate ogni giorno per diversi giorni, fino a essere certi che non avessero contratto il virus. Ovviamente i numeri lievitavano. Ricordo un lavoro enorme. Eppure entro la fine dell’anno il focolaio di ebola era debellato».

E ora com’è la situazione in Uganda? E cosa pensa di questa nuova epidemia?
«L’Uganda, dopo la guerra durata dal 1986 al 2007, oggi è un paese in crescita economica. Le spese militari sono elevatissime, le contraddizioni e gli squilibri sociali evidenti, ma la spesa pubblica dà i suoi frutti e non mancano scuole, università, ospedali. È una nazione giovanissima, che vuole crescere, sempre in cambiamento. Dal punto di vista sanitario è un paese in allerta, che sta mettendo tutte le sue energie per affrontare una eventuale nuova epidemia con prontezza e rapidità. Il caso di Gulu e del Lacor Hospital mi pare insegni qualcosa in questo senso. Per contrastare la malattia, oltre alla prevenzione ci vuole una mobilitazione generale, una sinergia che coinvolga le forze vitali dell’intera comunità, le autorità sanitarie, i responsabili politici, le persone che hanno un ruolo in vista nelle tribù. E questo vale anche per le comunità religiose e missionarie».

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Fonte: Sir