Medio Oriente: il 2018 non promette nulla di buono

Un conflitto israelo-palestinese ancora più avvitato su se stesso, dopo l’annuncio di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, la sconfitta militare dello Stato islamico, la sempre più probabile vittoria di Assad nella guerra civile siriana, la ritrovata influenza russa nello scacchiere mediorientale, le convergenze anti-iraniane di Arabia Saudita e Israele guidate dagli Usa.

Medio Oriente: il 2018 non promette nulla di buono

Il 2017 si era aperto marcando il 50° dell’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi in seguito alla Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967). Ora si chiude senza alcun passo avanti nei negoziati. Anzi, l’annuncio di Trump sembra aver messo una pietra tombale sul processo di pace. E forse anche sulla pacificazione complessiva della regione.

Il processo di pace è morto da anni.

Non c’è la volontà di Israele – spiega Riccardo Redaelli – di fare concessioni. I palestinesi sono deboli e divisi. Israele ha tratto profitto, anche strategicamente, dalle divisioni del mondo arabo spostandosi molto a destra nelle posizioni di chiusura verso i palestinesi e portando avanti la politica degli insediamenti.

Tutto serviva meno che l’annuncio di Trump su Gerusalemme. Una mossa compiuta molto a freddo che mostra la palese volontà del presidente Usa di rispondere alla parte più estrema del suo elettorato, quindi alla lobby filo-israeliana e agli evangelici radicali.

Tuttavia, credo che, paradossalmente, sia una mossa che finirà per danneggiare lo Stato ebraico poiché ha favorito l’opposizione radicale a Israele, dall’Iran alla Turchia, mettendo in difficoltà un grande alleato regionale come l’Arabia Saudita.

Lo si è visto nel vertice straordinario dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) a Istanbul, convocato da Erdogan in cui è stata riconosciuta “Gerusalemme Est come capitale dello Stato di Palestina occupato”…
Il summit voluto da Erdogan è stata una mossa molto strumentale volta a distogliere l’opinione pubblica dalle difficoltà interne del Sultano. Si è trattato di un escamotage di sicuro effetto per tranquillizzare il proprio elettorato e riproporsi come difensore dei palestinesi davanti al mondo islamico nel momento in cui la Turchia ha collezionato una serie di fallimenti regionali, come si è visto, per esempio, in Siria.

Il 2017 ci consegna la sconfitta militare dello Stato islamico non certo quella della mentalità terroristica jihadista che lo ispira…
Daesh si è rivelato militarmente più debole di quel che si pensasse. Quando si è deciso di contrastarlo, è stato sconfitto. Sono stati molto bravi iraniani e russi in Iraq e Siria a colpirlo duramente e a mobilitare le forze sciite volontarie. Lo stesso hanno fatto gli Usa con i curdi, come accaduto a Raqqa.

La sconfitta riporta Daesh nell’alveo del jihadismo globale.

In questo contesto va riportato quanto sta avvenendo nella penisola del Sinai, in Egitto, dove combattenti dello Stato islamico hanno trovato rifugio. Stragi contro i civili e attacchi a forze militari regolari vengono condotti da anni in questo lembo di terra difficile da controllare per oggettive difficoltà territoriali. Si tratta di tensioni che, con quelle analoghe che si accendono anche in Mali, Algeria del sud, Libia e Somalia, sono destinate a durare. Un grande pericolo, adesso, è rappresentato dal ritorno dei foreign fighters nei rispettivi Paesi, vere mine vaganti per la sicurezza internazionale.

La guerra in Siria sembra volgere a favore del presidente Assad grazie ai suoi alleati Russia e Iran. Ci sono prospettive per una pacificazione del Paese?
Assad ha vinto la guerra per l’appoggio avuto da russi e iraniani. A perderla sono stati l’Arabia Saudita, la Turchia e gli Usa. Tuttavia

Assad non è persona che può proporsi come ricostruttore della Siria.

Ciò che manca è un piano internazionale. La cosa migliore potrebbe essere una successione pilotata con un altro alauita, accettabile da russi e iraniani, e che renda il regime meno inaccettabile.

A combattere in Siria ci sono anche le milizie sciite libanesi di Hezbollah. Il Libano si conferma come snodo importante ma, al tempo stesso, debole dello scacchiere mediorientale. Il Paese dei Cedri può diventare l’ennesimo punto di crisi per la Regione?

Il Libano rischia di essere il nuovo fronte di instabilità nella Regione. Se ciò accadesse, sarebbe drammatico per tutto il Medio Oriente.

La vittoria in Siria rafforza l’arco sciita che da Beirut arriva a Damasco fino a Baghdad per non dimenticare lo Yemen. Puntare a indebolire Hezbollah, come Israele e Arabia Saudita sono intenzionati a fare, significa anche far crollare il Libano. La rozzezza strategica saudita, come si è visto nel caso delle dimissioni del premier libanese Saad Hariri, potrebbe portare Riyad all’ennesimo flop dopo Siria, Iraq e Yemen.

Yemen, una guerra di cui nessuno parla… 
Nel Paese situato all’estremità della Penisola araba del Golfo si fronteggiano le forze filo-saudite e i ribelli Houti filo-iraniani. I sauditi pensavano di vincere in poche settimane ma di fatto hanno spinto l’Iran ad aumentare gli aiuti agli Houti. Una guerra in cui si bombardano civili, ospedali, campi profughi, tutto nel vergognoso silenzio dell’Onu. Alla luce di quanto detto, pare chiaro che vedremo sempre più fronteggiarsi, in Medio Oriente, Russia-Iran da una parte e Usa-Arabia Saudita-Israele dall’altra.

Che cosa dobbiamo attenderci per il futuro dell’area? 
Di certo enormi tensioni.

Il dato più pericoloso viene dall’amministrazione Trump che è tornato alla demonizzazione dell’Iran e al sostegno indiscriminato e acritico a Israele e Arabia Saudita. Questo sarà fonte di enormi problemi anche perché con l’accordo sul nucleare si poteva moderare l’Iran.

Invece questa politica di demonizzazione porterà enormi tensioni e finirà per appoggiare la parte peggiore del governo iraniano. Il governo di Hassan Rohani è di fatto esautorato. Per le questioni regionali e securitarie comandano i pasdaran, i guardiani della rivoluzione.

La miccia di un’ulteriore escalation di tensioni potrebbe essere ancora la causa palestinese?
No. Piuttosto peserà la decisione israeliana di volersi tenere i Territori Occupati e di non ragionare su Gerusalemme, quindi la sua volontà di non arrivare ad alcun accordo. Il tempo lavora per Israele.

Dei palestinesi, ormai, non interessa più nulla a nessuno.

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