10 agosto 1917: essere soldati e restare preti nell’inferno delle trincee

Quello dei cappellani militari era un ruolo “privilegiato” ma esigente. Eliminati dallo stato unitario, furono reintrodotti alla vigilia della dichiarazione di guerra dal generale Cadorna. Il loro ruolo fu pastorale ma anche propagandistico, per sostenere il morale e la disciplina della truppa. La Difesa sottolinea costantemente il loro spirito di sacrificio e il loro valore.
E nel numero del 10 agosto 1917 annuncia la medaglia d’argento conferita a don Giovanni Rossi, sacerdote padovano cappellano dei Granatieri di Sardegna.

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10 agosto 1917: essere soldati e restare preti nell’inferno delle trincee

La notizia della medaglia d’argento conferita al prete diocesano don Giovanni Rossi, cappellano militare del primo reggimento Granatieri di Sardegna, rientra in una politica di attenzione con cui il settimanale diocesano accompagna costantemente l’operato dei preti soldato e in particolare dei cappellani militari, sia al fronte che nell’assistenza ai soldati feriti nelle retrovie.
Con l’avvento dello stato unitario i cappellani militari erano stati gradualmente esentati dal servizio religioso, che era stato mantenuto solo in alcuni ospedali territoriali. Un certo numero di cappellani furono inviati in Libia nell’ambito del conflitto coloniale. Per il resto, il clero secolare e religioso aveva gli stessi obblighi di leva dei normali cittadini.

Il 12 aprile 1915 si ebbe un’inversione di tendenza con la circolare del generale Lugi Cadorna, il quale stabilì che ogni reggimento avesse un cappellano militare, equiparato al grado di tenente.
Furono previsti anche cappellani valdesi e battisti e rabbini militari. Il decreto luogotenenziale del 27 giugno precisò che i cappellani sarebbero stati sotto l’autorità di un vescovo di campo, che per tutta la guerra fu mons. Angelo Bartolomasi, a cui spettava la scelta dei cappellani. E indicò con precisione i reparti a cui spettava il cappellano: ogni reggimento di fanteria, granatieri, bersaglieri, artiglieri, ogni battaglione alpino e di guardia di finanza, negli ospedali da campo, nelle sezioni di sanità, nei treni sanitari, negli ospedali territoriali uno ogni 400 letti.

A fronte dei 24.446 “preti soldato” arruolati durante la guerra, i cappellani furono 2.738: 1.350 al fronte nei vari reparti, negli ospedali da campo e nei treni ospedale, 742 negli ospedali territoriali (con 591 aiuto-cappellani), 18 nella riserva, 37 in marina. L’ordinamento del servizio religioso nell’esercito italiano risultò quindi migliore di quello francese e inglese.
All’inizio i cappellani vestivano l’abito talare con l’aggiunta delle stellette e del bracciale internazionale con la croce rossa, ma poi venne adottata la divisa grigioverde degli ufficiali con sul petto, a sinistra, una croce rossa. 

Secondo le indicazioni di mons. Bartolomasi, il compito dei cappellani, nel rispetto delle leggi militari ed ecclesiastiche, era soprattutto quello di essere quanto più possibili vicini alle necessità del soldato così da destare in lui un risveglio religioso e morale, per far emergere nella truppa i sentimenti più sani, quali l’onestà, la generosità, l’altruismo, il rispetto dei valori personali, l’amor patrio, il valore, l’osservanza dei doveri, l’ardimento, l’obbedienza e la rassegnazione al sacrificio.

Dal punto di vista della legislazione ecclesiastica avevano alcune particolari facoltà come dare l’assoluzione di massa, redigere atti di matrimonio per procura, impartire l’indulgenza plenaria in articolo mortis.

Riguardo alla collaborazione con le autorità militari, i cappellani svolsero un’importante opera di persuasione dei soldati verso l’amor di patria e il compimento del proprio dovere.
Ma la loro attività di propaganda oscillò molto a seconda delle convinzioni personali dalle conferenze patriottiche a quel ruolo di “segretariato popolare” che li vedeva fidati intermediari tra i soldati e le famiglie, senza tramiti burocratici o formalismi militari. C’erano poi le celebrazioni religiose, le messe al campo, le confessioni e le comunioni, l’assistenza ai moribondi, i funerali, la cura dei cimiteri, ma anche le visite alla prima linea, i colloqui individuali, la distribuzione di piccoli doni e oggetti di devozione.

I cappellani erano comunque anche ufficiali e in qualche caso, soprattutto in situazioni d’emergenza, come si rileva nelle motivazioni delle onorificenze assegnate loro, assumevano il loro ruolo di responsabilità in azioni belliche conducendo truppe all’offensiva in sostituzione di ufficiali caduti. Ma l’eroismo non era solo speso in atti di guerra: ci sono cappellani che assistono i malati e i moribondi restando con loro sotto il fuoco nemico o che vanno a recuperare i feriti e i morti nella terra di nessuno. Tra di loro compaiono nomi come don Primo Mazzolari, don Angelo Roncalli (san Giovanni XXII), don Giovanni Minzoni, fra Giovanni Forgione (san Pio da Pietrelcina). Furono loro conferite tre medaglie d’oro: a don Pacifico Arcangeli, padre Giovanni Mazzoni e don Annibale Carletti. Quest’ultimo è menzionato due volte nella Difesa, nel 1916 (2 luglio e 26 novembre) in occasione della sua azione sul Coni Zugno.

Per il resto, come si diceva, sono costanti le notizie di atti di valore, azioni coraggiose, morti eroiche. Solo qualche esempio: il 18 febbraio si riportano le decorazioni conferite sul Pasubio a don Emilio Ponte, morto dopo aver salvato una decina di feriti; il 1° aprile 1917 si dà notizia della morte del cappellano del battaglione alpino Monte Rosa don Ubaldo Nano, sepolto da una valanga mentre tentava di dare soccorso ai commilitoni. Il 22 luglio si dà notizia del primo cappellano “negro” (evidentemente allora non era ancora considerato termine dispregiativo) morto in guerra, il senegalese don Gabriele Sanè volontario delle colonie francesi. Il 7 luglio 1918 viene pubblicato un lungo intervento dell’abate francese Thellier de Ponchaville, in cui descrive una delle sue visite notturne alle trincee per portare ai combattenti il cibo eucaristico. «Occorre andare rapidamente, con prudenza, piegato su se stesso per non farsi vedere nel gran chiarore della luna. Si trattiene quasi il respiro e si cammina senza chiasso per non destare l’attenzione del nemico. (...) “Quale buona notte io passerò!” Così mi ringrazia sottovoce quegli che si è comunicato. Egli s’è già raddrizzato, si trascina carponi nella sua tana e riprende la guardia».

La guerra però non passò indenne su tutti questi preti soldato, e non solo per i 845 preti caduti.
Finita la guerra, 345 furono quelli sospesi a divinis; altri lasciarono il sacerdozio di loro volontà. Anche don Carletti fu ridotto allo stato laicale. Don Mazzolari, che gli fu accanto, scrive: «Il piccolo mondo spirituale di ieri non basta al sacerdote che ritorna dalla guerra (...) Cristo non può relegarsi lontano dalla vita e dalla sofferenza di tanti uomini: dove è la tempesta delle idee, delle passioni, della libertà, dove si matura l’umanità di oggi e dove si prepara quella di domani, l’apostolo non può mancare».

Abbiamo scritto

Giorni or sono S. A. R. il duca d’Aosta in zona di guerra distribuì le medaglie al valore alla Brigata dei Granatieri per l’ultima azione a cui ha preso parte. Del 1° reggimento fu assegnata la medaglia d’argento tra gli altri al cappellano militare sacerdote nostro diocesano don Giovanni Rossi da Sasso di Asiago.
Ecco la lusinghiera motivazione dell’ambita onorificenza: “Cappellano militare di un reggimento granatieri durante dodici giorni continui di aspri e sanguinosi combattimenti, non venne mai meno ai doveri della sua nobile missione. Primo tra tutti in prima linea, dette tutta la sua attività per rincorare e sollevare i feriti con la parola della fede e della speranza. Durante le stesse giornate procedette inoltre di giorno e di notte, allo scoperto e sotto il continuo fuoco dell’artiglieria avversaria all’inumazione dei caduti sul campo, dando così esempio di sublime abnegazione e di alto spirito del dovere. Quota 235, quota 219, 23 maggio - 5 giugno 1917”.

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