Maggio 1916, la tragedia dei profughi in Altopiano

Un libro sui giorni drammatici che segnarono per sempre la vita della gente di Asiago e dei Sette comuni, costretta ad abbandonare ogni cosa per sfuggire all’avanzata degli eserciti nemici nel disinteresse di tutti, tranne che della chiesa.

Maggio 1916, la tragedia dei profughi in Altopiano

Delle tre grandi offensive che gli imperi centrali scatenarono sul fronte italiano, quella più insidiosa non fu lo sfondamento della linea del Carso a Caporetto del 1917, che pure portò a vistose conquiste territoriali, ma piuttosto quella che colpì l’anno precedente gli altipiani vicentini arrivando fin quasi a sfociare nella pianura veneta. Il pericolo strategico rappresentato dalla conquista di Vicenza, e quindi dall’accerchiamento da ovest dell’esercito italiano, fu gravissimo.

Il contenimento dell’avanzata austroungarica sull’estremo confine meridionale dell’altipiano fu una rilevante vittoria difensiva dell’esercito italiano. L’offensiva degli altipiani, popolarmente nota come “Strafexpedition”, spedizione punitiva nei confronti della nazione che aveva rotto la Triplice alleanza per schierarsi con gli stati dell’Intesa, causò però anche la prima grande ondata di profughi civili italiani.

La gente della Valdastico e dell’Altopiano in poche ore, in quel triste 18 maggio 1916 e nei giorni immediatamente successivi, dovette abbandonare precipitosamente le proprie case e ogni suo avere per scendere in pianura, incontro a un destino che appariva quanto meno incerto. In seguito alla rotta di Caporetto, più di un anno dopo, altre grandi masse di civili dovettero lasciare le loro case, molti anche si trovarono dall’altra parte del fronte e furono internati in territorio nemico, con patimenti ben maggiori rispetto a quelli che riuscirono a passare in territorio italiano. Ma questo primo esodo diede già tutta intera la misura del dramma di una guerra che non coinvolgeva solo gli eserciti, ma anche le famiglie, le case, i beni, sconvolgendo le radici stesse di una popolazione, come quella dell’Altipiano dei Sette comuni, che aveva vissuto per secoli in quel «cantuccio dei più prosperosi della nostra patria – come scrisse a suo tempo Giulio Cesare Abba – perché l’uomo vi aiuta la natura col proprio lavoro. Sobrio, austero, operoso, perché desidera poco gli pare d’avere tutto».

La citazione è riportata nelle prime pagine del volume, edito in queste settimane dall’Istituto di cultura cimbra di Roana e firmato da Nico Lobbia e Sergio Bonato, La partenza per il profugato. Altopiano dei Sette Comuni 1916 (pp 142). Il libro fa seguito a quello di qualche anno fa dedicato invece al ritorno dal profugato e ha un significativo sottotitolo in cimbro: “Ghébar dehnìn so stérban net”: Andiamo via per non morire. Perché solo la minaccia impellente di morte poteva cacciare questa gente dalle loro case, dalle loro terre. Solo il pericolo più grave poteva indurre ottantamila persone dell’Altipiano e della Pedemontana vicentina proprio nel periodo della fienagione e del carico delle malghe, a lasciare tutto e scappare.

«Un esodo – spiega Sergio Bonato presidente da quarant’anni dell’Istituto di cultura cimbra di Roana e coautore del volume – aggravato dall’incertezza in cui i comandi italiani lasciarono le famiglie. Furono per primi gli austriaci ad avvisare la popolazione che stavano arrivando, ma non si poteva ascoltarli per non essere tacciati di disfattismo. Poi, quando l’esodo divenne inevitabile, il nostro comando continuò a minimizzare e a rassicurare: “Lasciate qua tutto, tanto tra una settimana torniamo”. E invece, quando appena una notte dopo le donne tornarono sull’Altipiano per prendere almeno qualche vestito, trovarono le case depredate e sconvolte da uno sciacallaggio vergognoso quanto tempestivo. magari coperto dall’alibi di non lasciare nulla al nemico. Alla fine la gente dovette scappare in modo disordinato, per strade intasate e mulattiere in cui mai prima, a memoria d’uomo, erano passati dei carriaggi, camminando tutta la notte con vecchi, malati, bambini, senza sapere nemmeno dove andare, senza sapere se i paesi, le parrocchie, le famiglie stesse sarebbero rimaste unite. Solo i preti rimasero a seguire la loro gente, a dare qualche orientamento; la diocesi di Padova, a cui appartiene per antica tradizione storica l’Altipiano di Asiago, la Valdastico e il Canale del Brenta, si prodigò a fornire i primi aiuti, sollecitando contemporaneamente le autorità perché la burocrazia stesse dietro tempestivamente ai bisogni reali dei profughi».

E nonostante questi appelli, per quattro-cinque mesi dallo stato e dagli enti locali arrivarono ben pochi aiuti. Il vescovo Pellizzo scrivendo alla Santa Sede il 19 giugno accusa: «Sono profughi dal 20 maggio. La maggior parte e dopo tante assicurazioni non hanno ricevuto un soldo all’infuori della poca carità che ho potuto fare loro coi fondi del Pane dei poveri dell’Antoniana». Don Giuseppe Rebeschini, nativo di Roana, incaricato dal vescovo di coordinare l’assistenza ai profughi, soprattutto attraverso i parroci, aggiunge: «Certi signorotti quanto pronti a fare una dimostrazione patriottica a suon di musica e con le bandiere, altrettanto furono pronti a rifiutare qualche stanza delle loro abitazioni a questi umili eroi del sacrificio, trovando un buon pretesto per coprire tali infamie coll’accusarli per una massa di spie. I palazzi son chiusi, son chiuse le ville di questi patrioti autentici. Per tutto c’è posto, per le bestie, per il cavallo, per la cagna, ma per un profugo no».

Quella dello spionaggio militare era un’accusa ricorrente e infamante, benché assolutamente infondata, favorita magari dalla parlata cimbra, così simile al tedesco, delle famiglie dell’Altipiano. Indifferenza, disprezzo, rifiuto di accoglienza si sommarono alla disorganizzazione dei pubblici poteri. Alla fine si stabilirono dei centri di raccolta per gli sfollati, raggruppati per parrocchia, anche se si tratta di riferimenti quanto mai generici.

Alla fine la dispersione, dei paesi e perfino dei nuclei familiari per tutta Italia, fu generale. Per fare solo un esempio, i profughi di Rotzo, che avrebbero dovuto fare riferimento a Barbarano, erano sparsi tra Vicenza, Padova, Pavia, Venezia, Modena e Torino… I parroci che già avevano accompagnato come potevano la gente nell’esodo, sollecitando, confortando e guidando, si assunsero poi il difficile compito di tenere i collegamenti con i fedeli sparsi per mezza Italia, rispondendo fedelmente alle esortazioni del vescovo. Ai loro preti, gli esuli potevano confidare le loro difficoltà e sperare in un po’ di sollievo, materiale e spirituale, chiedendo che intervenisse presso le autorità per dotarli di attrezzature igieniche, assistenziali e sanitarie.

«Il volumetto da noi pubblicato – conclude Bonato – è solo un primo assaggio del lavoro di documentazione storica che appare doveroso compiere per rompere un silenzio centenario. Occorre allargare la raccolta delle memorie, andando a sentire i ricordi che i “veci” ormai morti hanno affidato a figli e nipoti. Occorre raccogliere la documentazione archivistica e giornalistica e infine bisogna collocare il profugato nell’ambito della storiografia».

Di quella “storia culturale” che oggi va per la maggiore, lasciando in secondo piano le vicende strettamente belliche e politiche, per mettere il primo piano la vita comune della gente, dei soldati e della popolazione, delle comunità e dei paesaggi che abitavano e che la guerra sconvolse indelebilmente. Il comitato di coordinamento sulla grande guerra dell’università di Padova ha stabilito che ciascun anno del quinquennio del centenario sarà dedicato a un tema specifico e accanto alla protezione delle opere d’arti e all’armistizio quello del profugato sarà uno dei temi qualificanti.

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